Feb 292016
 

GIOACHINO MARIA ROSSETTO

DIARIO DI UN’ANIMA

Gioacchino rossetto02I manoscritti del Diario di un’anima [1920-1922] sono conservati nell’amplissimo fondo «Gioachino Maria Rossetto» dell’Archivio della Casa “Pater” di Vittorio Veneto (Treviso). Ivi si conserva anche l’originale di Clausura, una lettera che il Rossetto scrisse nel 1930 da Genova a Emanuela Zampieri, responsabile della “famiglia delle figlie di Dio”. Il Diario di un’anima consta di fogli distinti, che il Rossetto tra­smise, a scadenze irregolari, alle prime “figlie di Dio” poco dopo la nascita della nuova famiglia spirituale (25 dicembre 1919), con la raccomandazione che ne tenessero copia e li trascrivessero per comunicarseli tra loro. Questa prima antologia è stata curata da Mario Albertini nel 1988. I titoli dei diversi brani sono stati posti da lui, che ha creduto opportuno fare anche alcuni, minimi, ritoc­chi di stile.

LA PACE INTERIORE

Voglio esaminarmi sulla pace interiore.

Gesù, apparendo dopo la sconfitta dell’inferno, ha detto: “Pace a voi” (Giovanni 20, 19). Aveva infatti promesso: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (ivi 14, 27).

La pace di Gesù è frutto della sua morte; in noi sarà frutto anche della nostra morte; morte ai nemici che ci vogliono schiavi, morte all’amor proprio che è il mio nemico più vivo e più vici­no. Per dare questa morte devo combattere; quando cesso di combattere già sono prigionie­ro e schiavo. Non mi spaventi la lotta, se mi attrae la gloria del trionfo eterno: la lotta è per poco, la pace è eterna.

Che cosa toglie o disturba la mia pace? è qual­che desiderio non soddisfatto? è qualche pena che mi è sopraggiunta o non mi viene alleviata o intesa o compatita? è una figura poco brillante che ho fatto? è un giudizio che altri può aver fatto di me, meno giusto? Se tutti sapessero in verità ciò che in verità io ho fatto e ciò che sono!… Se lo sapessi almeno io.

Voglio essere realmente e veracemente quello che sono davanti al mio Dio.

O Dio mio: Tu sei il Dio, Dio mio!

Dio è il Dio, cioè l’Essere supremo, anche se non vi fossero le creature. Egli è però il Dio di tutte e di ciascuna creatura. Ma Egli è più particolar­mente il Dio mio, il Dio mio. Oh! gioia e timore insieme. Io ho un Dio, e questi è il Dio unico dell’universo, oltre e sopra l’universo, il Dio in se stesso eterno, onnipotente, in se completamente beato. Egli me lo ha detto: io sono il Dio di Abramo, di Isacco… (cfr. Esodo 3, 6), io sono però il Dio, Dio tuo! (cfr. ivi 20, 5).

Che meditazione profonda è questa: io ho un Dio cui devo adorazione, immolazione, espia­zione, riparazione, gratitudine, amore… E que­sto Dio vuole che io lo chiami col dolce nome: «Padre!…». Io non sono solo una creatura di Dio come lo è il sole, no: io sono un figlio di Dio!… un figlio di Dio!…

Voglio vivere morto. Vigilerò perché nemmeno si sappia che io esisto, quindi senza pretese, senza lamenti o senza gioie sfrenate, senza lacrime inu­tili; lavorerò, soffrirò, pregherò nel massimo si­lenzio.

Non voglio si sappia che l’ho fatto io, quello che ho fatto io, perché l’ho fatto; non voglio che mi si ringrazi o se ne tenga conto. Lo sa il Padre mio celeste: basta. Non occorre, né voglio si sappia ciò che io sono: lo sa il Padre mio che vede nel nascosto e me ne retribuirà nel cielo. Ho un nome presso di lui: quel nome sarà scrit­to sulla mia fronte. Egli mi ha chiamato con quel nome prima che io nascessi, e questo mi conferma che io gli sono figlio, e che Egli mi è Padre e Madre, tutto!…

Ho il cuore traboccante di gioia. Che cosa ho qui dentro che mi fa tanto felice? Cosa sono al confronto della felicità mia tutte le gioie vane, i divertimenti, gli spassi del mondo? O Dio mio, Dio mio: grazie a Te!

O Dio, o Eterno, o Onnipotente, o Santissimo, Dio al quale tutte le vittime devono essere im­molate, al quale nessuna è degna di essere im­molata, per la quale nessun altare è puro abba­stanza, Dio, come Ti ringrazierò? Ogni mattina e più volte, infinite volte al giorno io posso of­frirti un sacrificio degno di Te, anche se non posso entrare in chiesa e ascoltare la santa Messa, fare la Comunione. Lo so: io posso erigere, anzi tengo eretto un altare candido, e celebrarvi sa­crifici graditi al tuo cospetto. E Ti offrirò tutte le vittime, e la principale: Gesù, il mio, il tuo Gesù, e tutte le vergini pure, tutti i religiosi, i sacerdo­ti, i vescovi, il papa, e tutti gli altari insieme, che eternamente incensino in gloria e onore a Te, Babbo mio soavissimo!… Dio mio, terribile e santissimo, chi potrebbe mai comprendere la mia felicità?

Io sono figlio di Dio. Dio mi ha concepito nella sua amorosa volontà fin dall’eternità, mi ha portato nel suo seno fino a che non mi depose nel seno materno dove e da dove cominciarono le infinite meraviglie della mia vita. Egli mi ha fatto: “Ipse fecit nos, et non ipsi nos” (Salmo 99, 3): Lui mi ha formato, non sono stato io a for­mare me stesso. Ma se questo è vero, come è vero, Dio mio! Quale gioia! Quanto è nobile e grande la mia famiglia in Dio…

Dio mi ha fatto sapere che una sposa si potrà dimenticare dei suoi ornamenti e una madre dei suoi figli (cfr. Isaia 49, 15), ma non mai Lui di me, Lui che mi tiene come la pupilla degli occhi suoi…

Credendo questo, io amo e riposo.

[5 luglio 1920]

Grazie a Dio, per avermi donato la vita.

Sento che la ricevo da te: solo tu sei vita piena; vita viva per se stessa; vita eterna, senza fine. La mia è dono tuo, dono perfetto nella sua origine, datomi con bontà di amore […].

O Padre mio, io ti offro e consacro tutta la mia vita. E ti offro anche la mia morte [..]

IL PURO AMORE:  LA SETTIMANA SANTIFICATA

Voglio che il puro amore sia il motivo di ogni mia azione.

Prima di tutto devo escludere i motivi umani, naturali e terreni; poi, anche quando faccio in vista del bene, voglio compierlo solo per puro amore, con il massimo amore. Se così farò, an­che le azioni più ordinarie diventeranno eccel­lenti e soprannaturali, degne di Dio, al quale le voglio offrire tutte: tutte e solo a Lui, vir­gineamente.

Il puro amore è come la luce pura, che può essere scomposta in vari bellissimi colori di infinite sfumature. Sono sette i principali atti di puro amore, che io, per rendermeli più facili e vivi, distribuirò uno per ogni giorno della settimana.

DOMENICA: ADORAZIONE

Sù nel Cielo tra gli Angeli, con la fronte a terra (cfr. Apocalisse 7, 11). Così come la Vergine adorò Gesù in sé, nel Presepio, sulla Croce; come Gesù adorò il Padre nel seno di Maria, sulla Croce, nelle notti steso a terra, ed ora sempre in tutte le ostie; così come il papa e con lui tante anime consacrate a Dio, al Dio mio, al Dio Padre mio… Come sono felice di poter adorare il mio Dio. E meglio lo adorerò con Gesù nel mio petto: allora adorerò sufficientemente.

LUNEDÌ: ESPIAZIONE

Ho peccato, tanto ho peccato, e tanto più avrei peccato se Dio non mi avesse tolto l’occasione, e non mi avesse sopraffatto di grazie. Io ho pecca­to. Chiederò perdono, griderò: perdono per la tua bontà, o Padre mio, per il Figlio tuo e fratel­lo mio, mio sposo Gesù, per l’amor mio crocifis­so, agonizzante, per il suo Sangue, per i suoi spasimi, per il suo amore, per la mamma sua, per tutto quello che hai di più caro e per l’amore delle tue vergini… Potessi sperare di lavarmi con il mio sangue… Perché non mi darai di espiare con la mia morte il mio peccato?

MARTEDÌ: RIPARAZIONE

Quali bestemmie odo, quali titoli al mio Dio, all’Onnipotente datore della vita di purezza, al Creatore della luce, dell’amore… Quali oscenità, quali scandali di innocenti, voluti, goduti…; crudeltà, oppressioni, sacrilegi… Padre mio, se Ti amo, come voglio, come non brucerò di zelo per Te? per la tua gloria, per la santità del tuo amabilissimo nome? Padre, Padre, Padre: griderò e farò gridare: «Pa­dre, perdono!».

MERCOLEDÌ: RINGRAZIAMENTO

Quanta bontà ha effuso il centro di ogni bene intorno a sé!

“Del tuo amore è piena la terra” (Salmo 118, 64). Tutti abbiamo ricevuto della tua pienezza (cfr. Giovanni 1, 16). La creazione, la redenzione, la conservazione, la santificazione e la glorificazio­ne eterna: è tutta bontà del Padre soave.

Per me particolarmente: Egli ha creato me, me, me… Oh, gioia! Grazie, Padre, vero Padre mio, Padre di tutto me.

Mi ha conservato preparandomi tutto il necessa­rio per l’anima e per il corpo, disponendo tutto col massimo amore per il mio bene. Gesù mi ha redento prima che io fossi, prima che io peccas­si. Mi ha amato tanto pur sapendo che io l’avrei offeso, e con il perdono mi preparava tante gra­zie. E la verginità? e la vocazione mia sublime? Dio mio! Dio mio! Che faccio, ma che faccio io? Gesù, grida tu in me: grazie, grazie, Padre mio!… Quanto voglio amarti in ricambio! Che cosa mi riserverò? e non farei con questo un sacrilegio? Dio mio, ti basta il mio amore? Ti amo, sì, ti amo…

GIOVEDÌ: PREGHIERA

“In verità, in verità vi dico: se chiederete qual­che cosa al Padre mio nel mio nome, Egli ve la darà” (Giovanni 16, 24). “Non dico che pregherò il Padre per voi: il Padre stesso vi ama” (ivi 16, 26-27).

È il Figlio di Dio, il mio fratello, lo sposo caro, che mi assicura questo: tutto, tutto io posso volere e ottenere… Egli è il Padre, ed è l’Onnipotente: chi sarà contro di me? cosa non posso volere e ottenere? Tutto: per il mondo che deve essere salvato, per la Chiesa, per il Papa, per tutte le anime. E per me? Io voglio farmi santo, farmi santo per davvero. Padre mio, fammi santo, dammi lo Spirito del Figlio tuo Gesù, dammi la fede, l’amore; dammi tutto; io mi dono tutto. Tu sai tutto: mi butto in Te, ma voglio amarti tanto, per sempre; e più di tutto voglio che Tu sia co­nosciuto e amato, che venga il regno dell’amore, che sia fatta la tua volontà, Padre amabile.

Il “Padre nostro” me l’ha insegnato il fratello mio Gesù: è così dolce il “Padre nostro”! Lo terrò sempre sulla bocca. Pregherò particolarmente per i poveri peccatori.

VENERDÌ: IMMOLAZIONE

Che cosa è mai questo? Guardo Gesù sulla Cro­ce e sull’altare, chiudo gli occhi, e dico: «Padre; per Te, per Te tutto, tutto!». Beato l’agnello di­steso sull’altare, sacrificato a Dio!

Il cuore della Vergine Addolorata, il cuore dei martiri, delle vergini vissute nel silenzio, nella immolazione: grani d’incenso consumati davan­ti al trono dell’Altissimo.

Io non so niente, non vedo niente: mi abbando­no. Dio, tuo totalmente!

SABATO: AMORE

L’amore è fiamma che più ha più brucia. Tutta la settimana e tutta la vita per l’amore, ma un giorno più ancora e solo per lui.

Ho sentito un grido: al massimo amore; lo capi­sco? Al più puro, al più disinteressato, al più generoso amore. E che farà di me questo amo­re? Non mi importa saperlo, mi importa lasciar­lo fare, provocarlo, esserne degno.

Oggi è solo un giorno, domani è l’eternità. Do­mani canterò l’Amore: “Dio, un canto nuovo ti canterò” (Salmo 143, 9), un canto tutto nuovo, sempre nuovo, perché mai mi sazierò di dirti: ti amo, ti amo…

Ma voglio intonare il mio canto fin dalla terra, oggi, qui, e farne risuonare le pareti della mia casa, le vie, le piazze, i campi, i boschi, le mon­tagne, gli spazi…

Canta, canta, mio cuore: tu lo sai che sei fatto per l’Amore, dall’Amore, in un gesto di Amore infinito, divino!  [15 agosto 1920]

Ho trovato con gioia questi sette colori della mia luce nei sette atti dell’amore verso il mio Dio, distribuiti nei sette giorni della settimana, e mi piace nutrirmi di essi nelle mie visite a Gesù nel santissimo Sacramento: adorando, espiando, ri­parando, ringraziando, pregando, immolando e amando.

Ma mi pare di aver omesso un atto molto nobile e delicato, cioè la compiacenza del bene, della perfezione, della santità del mio Padre caro, Iddio. E poi ho trovato anche l’abbandono, e altri atti ancora. Tutti questi atti li racchiuderò nel settimo, cioè nell’amore che tutto dice e tut­to comprende e tutto spiega e tutto abbellisce. [16 novembre 1920]

CONSACRATO ANCH’IO

Ho assistito alla prima Messa di un neo-sacer­dote.

Che cosa ho provato? Gioia e invidia. Gioia per lui, per i suoi cari, e più per il caro Padre mio che nuovi e più sacrifici ne riceverà. Ma invidia anche: lui beato, è tutto di Dio, consacrato a Dio.

Che cosa è essere consacrato totalmente, anima e corpo e per tutta la vita e l’eternità, a Dio? essere di Dio?

E io? In Gesù Cristo anch’io voglio essere sacer­dote, e con Lui offrire a Dio Lui stesso e me. Dio mi ha fatto per Sé, e io voglio essere per Lui. Se la mia volontà incontra la volontà divina e le aderirà pienamente, non sarò sacro anch’io e per sempre?

Consacro a Dio la mia verginità, dono soave del Padre mio, per essere sacro nelle mie membra e nei miei sentimenti. Consacro a Dio la verginità del mio cuore per essere sacro nella mia volontà e nei miei affetti tutti, destinato ad un unico amore, al più puro, al massimo amore, perché nulla più mi turbi, nulla mi agiti, nulla mai più angusti o tocchi il mio regno di pace. Consacro a Dio la verginità della mia mente, per credere in pura e nuda fede, per fidarmi contro ogni speranza, per buttarmi ciecamente in Dio, che io credo e voglio credere e so che è il Padre mio dolcissimo, amorosissimo, affabilissimo, soavis­simo.

Sì, mi consacro così, e così mi consacrerò ogni giorno e più volte al giorno, e più quando strin­go in me Gesù che mi consacra con il suo san­gue, con il suo sguardo, più puro e cocente dello sguardo del sole, con il suo bacio castissimo, con il suo amore purissimo.

Sì, anch’io sono tutto e sempre di Dio. [15 agosto 1920]

Grazie, o Dio, grazie. Forse, non ti ho mai ringraziato; e, certo, non ti ho ringraziato abbastanza, per un dono così grande e così bello. Mi hai fatto simile a te stesso! Io ras­somiglio a te! È questa la prova più sicura del tuo amore di Padre. Per questo io posso e devo sentirmi tuo figlio, amarti ed affi­darmi tutto a te.

SILENZIO

Silenzio: parola grande. In tutte le Regole di ordini religiosi, in tutte le vite dei Santi, in tutte le opere grandi regna il silenzio. Il silenzio è vasto come lo spazio, la parola è stretta e spesso più leggera e vuota di una foglia morta.

Dio opera l’opera sua creando, redimendo, san­tificando, glorificando l’universo materiale e spirituale nel silenzio.

Gesù Cristo tace nel seno materno, a Betlemme, in Egitto, a Nazareth. Maestro dei secoli, parla poche parole incisive, scultoree, divine. Nell’Eu­caristia tace. Parla? Allora parla nel silenzio della meditazione, nel deserto, sui monti, o nella ca­verna del cuore in pace e silenzioso.

La Vergine prudente tace.

Voglio, devo imparare a tacere. Il mio sguardo tacerà come il raggio del sole, la mia fronte ta­cerà come le montagne nevose, il mio labbro tacerà come il ruscello che scorre all’oceano, il mio cuore tacerà come la campagna feconda in primavera e ubertosa in autunno, l’anima mia tacerà, e griderà, come tace e come grida Dio. Il silenzio da mattina a sera, rotto solo per necessità o convenienza, e allora sempre con pace e soavità, sarà una delle regole più importanti della mia vita.

Il mio silenzio sarà custodito gelosamente an­che dall’orecchio, dalle letture inutili, dalle fan­tasie vane.

Penso bene, se mi sarà concesso dal mio diret­tore spirituale, di fissarmi almeno lo spazio di un’ora, che in seguito aumenterò in cui tacere o parlare solo per necessità. In quell’ora cercherò molto anche di conservare la pace interna ed esterna, e di fare meno rumore possibile, raccol­to, quasi non fossi sulla terra, sempre che il dovere o la carità non richiedano altrimenti. [16 novembre 1920]

Pater: Papà, Papà!: questa soavissima fra tutte le parole che possono pronunciare le nostre labbra, e che era il nome preferito con cui Gesù, il nostro divino fratello, era solito chiamare il Padre suo e Padre nostro, deve essere quasi la nostra tessera, 1a nostra parola d’ordine, il nostro gemito, il nostro grido di battaglia nelle tentazioni o nell’affrontare qualche sacrificio.

VERGINITÀ

Ho ben capito, o riuscirò mai a capire, cosa si­gnifica: Verginità di cuore? e di mente?

Mi fisso questo pensiero che ho letto: Maria prima di dire il fiat era vergine, dopo divenne vergine-madre. Il fiat consacrò ed estese e fecon­do la verginità, perché quel fiat è l’espressione della pura fede che chiude gli occhi alla luce creata per aprirli a quella divina, la piena fidu­cia, la donazione e la consacrazione di tutto, a tutto, perfino a ciò che sembra impossibile, come il congiungere la verginità alla maternità.

Fiat beato e onnipotente.

Se io sono vergine di cuore e di mente così, con il mio fiat incarno in me la divina volontà, la sua parola, il Verbo di Dio, il suo gusto, il suo amo­re, abbandonandomi al divino beneplacito.

Con la verginità della mente credo e mi affido a Dio, e incarno la verità, e in un certo modo dò vita in me alla vita di Dio: Dio vive in me per la mia morte; per il dono di me a Lui, io vivo in Lui, per Lui, Lui. E allora io sarò onnipotente, e sarò vergine e madre, genererò Dio in me e me stesso in Dio, e farò vivere di Dio molte anime, e Dio in loro.  [16 novembre 1920]

“Non tutti capiscono questa parola, ma solo quelli cui è dato dal Padre mio” (Matteo 19, 11).

Se ben intendo, è qui espressa una bella nota del la verginità di cuore: il distacco dalle cose, dagli onori, dalla stima, l’amore alla povertà, al di­sprezzo, all’abiezione. Vi è qui un sapore come di sacramento, nascosto, intimo, che lega questo amore dell’abiezione al vero ed eterno Figlio di Dio, che dalla gloria del cielo è sceso a cercare l’abiezione sulla terra.

Solo i Santi, pochi, hanno capito la parola del Verbo incarnato, il Verbum Crucis che è stoltez­za al mondo, per noi la virtù di Dio e la sua potenza (cfr. I Corinti l, 18).

Capisco io la parola della Croce, della verginità vera del cuore? Il Padre mio ha dato a me di capirla e di operarla? O Padre mio, te ne suppli­co, per te stesso, per il Figlio tuo che è la tua Parola, sonante e squillante dalla Croce è nella Croce, ancor più te ne supplico per l’amore te­nero, immenso, divino che Tu, Padre mio, Padre mio, Padre mio, hai per me, per me, tuo figlio, sperduto tra miriadi di stelle e di altre creatu­re…

Gesù mi chiamai: “Soror mea, sponsa”: sorella mia, sposa!

O Fratello, diletto mio, chi mi darà di sentire la tua voce? La tua voce è dolce e soave: la mia anima si è liquefatta appena il Diletto ha parlato (cfr. Cantico 4, 12; 2, 14; 5, 6). [14 gennaio 1921]

Dio mio, Padre delle meraviglie: io ho un cuore più vasto e profondo del mare; io ho desideri più alti di ogni onda, ho dentro di me una inquietudine che non mi dà pace se non tendo a te, se non giungo a te.

Io fisso il mio sguardo in te e ti dò gioia!

Tu…, guarda al mio cuore: reprimi le impetuosità, domina le passioni, ricolmalo delle tue ricchezze, godine tu solo tutto 1’amore.

Fa’ scintillare su di me i tuoi raggi divini; dammi vita, e via eterna.

Ascolta il grido, il muggito di questo mare che porto in me stesso: esso ti ripeta sempre – nella calma e nella tempesta, nella gioia e nel dolore, nella pace e nell’angustia – ti ripeta solo e sempre il mio amore, o Padre d’amore!

SANTA CECILIA

Santa Cecilia: oggi è la sua festa. Quante lezioni per me!

Cecilia prega il Padre celeste nel nome di Gesù. Anch’io sento da qualche tempo devozione più tenera al Padre buono e onnipotente, al quale Gesù mi insegna di rivolgere il dolce nome: «Padre! », e che è veramente tale, anzi è anche la vera madre mia, ed esige da me tutto l’affetto mio. Cecilia era vergine.

Grazie, Padre mio! Per tua somma infinita mise­ricordia lo sono anch’io e lo voglio essere sem­pre, eternamente vergine, e voglio esserlo per puro amore e per poter più puramente amare il Padre mio.

Cecilia cantava sempre.

Anch’io esulto nell’anima mia, fra le gioie e fra i dolori, in esilio, ma non lontano dalla patria, dalla casa del Padre mio. Chi del resto può es­sere più felice di chi sa di avere per Padre suo tenerissimo l’Onnipotente? il Bellissimo, il San­tissimo, il Giusto, l’Amore sostanziale?…

E che sono in confronto alla mia gioia, vera, indefettibile, piena, le pazze e amare, velenose, vili e indegne gioie mondane?

Cecilia ha convertito colui che, suo malgrado, le era stato dato in sposo.

Io voglio predicare a tutti e convertire tutti; pre­dicherò in ogni modo, in ogni luogo, in ogni tempo, con mille lingue, e più di tutto con la penitenza, con l’esempio e con la preghiera che unicamente vale, unica forza di chi predica in nome di Dio. Così tutti mi sono veramente fra­telli e parenti per Gesù Cristo.

Cecilia ha convertito lo sposo invogliandolo a vedere il suo Angelo.

Devo anch’io parlare degli Angeli, di Dio, delle cose celesti, e ne parlerò a chi mi vuole ascoltare e a chi non lo vuole, insistendo opportunamente e importunamente, per guadagnare tutti a Cristo. Ne parlerò però con prudenza, preferendo i pic­coli, le anime semplici e pure, ma non trascurerò di parlare anche ai carnali e terreni. Se sapessero, tanti cuori, le pure gioie che il mio Padre fa pro­vare a me, come lo amerebbero più di me…

Cecilia ha mandato il suo sposo dal pontefice. Io non so inoltrarmi in discussioni. Credo abba­stanza per me, ma chi vuole luce vada al sole posto sulla terra a guida dei popoli e delle nazio­ni e dei singoli fedeli: il papa, la Chiesa, e chi ne tiene il posto. Si vada alla sorgente. Il papa sarà ancora nelle catacombe? La sua luce sfolgora ancora? I fedeli là trovano la verità, e usciranno dalle catacombe a mostrare la vita, che solo è vita, anche alla luce del sole creato, e se occorre anche tra i tormenti.

Cecilia viveva in grande familiarità con gli Ange­li. Al suo caro e vergine fratello, l’Angelo suo, si era affidata, e a lui si rivolgeva.

Anch’io ho il mio caro e vergine fratello celeste, figlio esso pure della luce e dell’amore. Lo devo intendere di più, e crederlo e sentirlo vicino a me, rivolgermi a lui alla cui custodia il Padre mi ha affidato come a fratello maggiore; devo ono­rarlo, ascoltarlo, e nulla mai fare o dire o pen­sare che gli dispiaccia.

Però, oltre che all’Angelo mio custode, io sento tanta devozione a tutti gli Angeli… e fra tutti onoro i tre Arcangeli Michele Gabriele e Raffae­le. Questi a Tobia ha detto: «Io sono uno dei sette che stiamo sempre al cospetto di Dio». E gli altri quattro li conoscerò un giorno; in questi tre voglio onorare tutti sette, e dedicare loro i sette giorni della settimana, anche se non li conosco tutti. San Michele ha cacciato Lucifero dal cielo al grido: «Chi è come Dio?» e fu costi­tuito da Dio sopra tutte le anime che riempiran­no i vuoti lasciati; egli presenta a Dio le orazioni, le oblazioni, le adorazioni dei santi della terra, cioè dei consacrati. San Gabriele ha annunciato a Daniele i misteri della redenzione futura, a Zaccaria la nascita del Battista, e alla Vergine il suo concepimento; sulle sue labbra si è udito il saluto: Ave, Maria!, e dalle sue labbra fu pronun­ciato per la prima volta il nome adorabile: Gesù. San Raffaele ha guidato Tobia, l’ha salvato dal demonio nel pesce, ne ha fatto anzi trovare medicina per gli occhi a vedere la luce: quasi che dalle tentazioni siano spalmati gli occhi per poi vedere meglio il vero e i nuovi orizzonti sulla via del cielo. Ha liberato Sara dal demonio e lo ha relegato su di un monte dell’Egitto, e ha fatto riscuotere il credito, e ha ricondotto Tobia sano tra le braccia dei suoi, ai quali poi ha dato gran­di lezioni circa il merito della preghiera e della elemosina e del timore di Dio. Affido me e le cose che mi riguardano a questi cari Principi della casa del Padre mio.

Cecilia volle differito di tre giorni il martirio, per consacrare in Chiesa la sua casa.

Ho pure io una casa, e voglio che sia per me come una Chiesa. Dio vi è presente, vi sono pure quelli che mi parlano in luogo di Dio; e ricevere le caste gioie dell’Amore mio, le divine ispirazioni.

Ma il mondo intero per me è una Chiesa, il tem­pio di Dio creatore, redentore e santificatore. Io Lo adoro.

Una casa migliore ho da consacrare, il mio cuore, la mia mente, la mia anima, e devo far pre­sto: cosa sono tre giorni? e chi me li assicura? O Padre santo, aspetta ancora un poco: voglio consacrarmi tutto a Te; voglio farmi santo, far­mi santo per Te, per Te, per Te…

Cecilia quasi ape industriosa servì il Cristo. L’ape cerca i fiori, ne cava il miele. Io cerco i fiori più puri, sto bene tra i gigli, tra le rose, le viole, le passiflore; non voglio imbrattarmi, né toccare fango; assiduo, laborioso, al lavoro oc­culto, disciplinato, paziente, disinteressato, in­dustrioso. E saprò anche pungere, a rischio del­la mia stessa vita, chi mi vuole toccare. Fiori, alveare e cielo: ecco la mia gioia.

Cecilia è martire.

Martire: ho detto tutto. Non invidio la vergine, invidio la martire. Padre, non gradirai il mio sangue? Per ora voglio martirizzarmi nell’amor proprio. Voglio cantare anche tra i suoi gemiti, e per cantare devo avere il cuore contento, in pace. Canterò fino alla morte, e dopo per i colli eterni.

Tu, Cecilia, accompagnerai le mille e mille ver­gini con la tua cetra a sette corde. Canta ora tu il mio amore a Gesù, o dolce sorella mia. [22 novembre 1920]

POSSO PREDICARE ANCH’IO

Ho sentito una bella predica, e mi sono com­mosso. Ma perché non posso anch’io predicare? Lo posso e lo voglio. Non salirò il pulpito nelle chiese dove di solito i più bisognosi non entrano. Predicherò per le vie, sulle piazze, nelle botteghe, nei laboratori, nelle case, nelle visite, in ogni in­contro, con ogni persona, con i grandi, con i pic­coli, con i peccatori e anche con i cristiani miglio­ri. Voglio essere debitore a tutti di una maggior gloria del Padre mio: ai sapienti e agli stolti.

Predicherò con le parole, insinuando pensieri buoni, verità sante e trascurate anche dai buoni, soffierò sulla cenere che copre la brage, e sui carboni spenti. Predicherò interrompendo discor­si di terra o di carne, o di mondo, discorsi per lo meno inutili. Eleverò il pensiero e il discorso alle cose grandi, vere, eterne, alle quali poco, troppo poco, si pensa, perché troppo poco se ne parla anche dai buoni. Perché vergognarmi? Ciò che è vero è sempre vero, e il vero si identifica con il buono, così che ciò che è vero è buono e viceversa. Si vergognino i cattivi delle loro frivolezze, immondezze, e delle falsità. C’è poca serietà nella nostra società: si dà importanza al temporaneo perché si dimentica l’eterno.

Predicherò più di tutto con l’esempio, con la modestia. Ho sentito che una persona si è con­vertita nel veder fatta con senso di fede la genu­flessione da un pio religioso. Io non so dove e come, o quando o a chi posso fare del bene: spesso anche senza saperlo. Non sarà certo ste­rile la mia verginità. Dio mio, Dio mio, Padre mio: non è una vocazione, questa? non mi viene dal tuo cuore questa grazia?

Ma più ancora voglio predicare con la preghiera e con le mie mortificazioni. L’arcangelo Raffaele ha detto che l’elemosina e la preghiera purifica­no dai peccati e fanno trovare misericordia e la vita eterna (cfr. Tobia 12, 8-9). Io credo la comu­nione dei santi: e che quindi la mia preghiera e il mio bene possono diventare il bene del pros­simo. E se non ho denaro per il mio prossimo, avrò l’elemosina spirituale.

So che mentre il predicatore fa piangere gli uditori dal pulpito, un fratello laico nella cucina gli ottiene l’unzione del dire; e che mentre il missionario va a cercare le anime, una povera inferma gli ottiene la salute e la forza fisica e morale. “Qualunque cosa domanderete al Padre mio nel mio Nome, credete che vi sarà data” (Marco 11, 24; cfr. Giovanni 16, 23): ho mai ca­pito la forza di quel: “credete”?[12 dicembre 1920]

I MIEI DIFETTI

Devo capire e ricordare queste cose:

Primo: che io sono un sacco di miserie, com­posto di miserie e di indegnità: perché meravi­gliarmi se talvolta mi devo riconoscere per tale? se altri se ne accorge? Spesso mi rattristo per l’uno o per l’altro motivo, e più per il secondo che per il primo. Non vorrei essere tale, per non essere così spregevole a me e più per non appa­rire così spregevole agli altri. È amor proprio. Secondo: che difetti ne avrò sempre finché vivo: è questa la mia condizione sulla terra. Devo ras­segnarmi a combatterli sempre, e forse non mai vincerli del tutto, e anche a vederli risorgere alla prima occasione. La vita è una milizia, non è una pace; lavoro, non riposo; via, non patria.

Terzo: che dei nostri difetti Dio si serve per molti beni a noi: l’esercizio delle virtù, l’umiltà, la pazienza con noi stessi, la carità e il compati­mento verso gli altri che hanno difetti, eccetera. Non devo amarli, no, non devo volerli, ma com­patirmi se me ne trovo sempre in mezzo, e non fidarmi se ne avrò vinto qualcuno. Dio mi ha visto anche più difettoso, e mi ha amato prima, mi ama anche adesso: quanto è buono! [8 marzo 1921]

PADRE!

Mi colpiscono le parole del Vangelo di Giovanni: “Dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius”: ha dato il potere di diventare figli di Dio a quelli che credono nel nome di Lui (Giovanni 1, 12)

Il potere di divenire figli di Dio c’è: è dato a quelli che credono nel Nome bello che Cristo ha manifestato agli uomini, e che dice la divina paternità: Pater!

È lo Spirito Santo che grida in noi con gemiti inenarrabili: Abbà! Pater! (cfr. Romani 8, 15). Credere vuol dire operare conformemente a ciò che si crede, perché la fede senza le opere è morta. Credere nel nome del Padre vuol dire operare da figli di Dio. Il tipo perfetto è Gesù, che ha dato questo potere agli uomini, e vive con gli uomini per sostenere e rafforzare in loro continua mente e degnamente la divina figlio­lanza…

Intendere Dio nella sua verginale paternità, infi­nita paternità, soave paternità, divina paternità: che grazia!

Gesù l’ha detto: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e quelli ai quali il Figlio lo vorrà rivelare” (Matteo 11, 27). O Gesù, fratello mio sposo, ti prego per l’amore con cui tu stesso ami il Padre, fammi conoscere il Padre: “Mostraci il Padre, e ci basta!” (Giovanni 14, 8). Fammi ca­pire anche come io devo essergli figlio; stringimi a Te, fammi vivere la vita tua, Tu che sei il Figlio vero.

Questi pensieri mi schiacciano, ma mi elevano, mi purificano, mi divinizzano unendomi in sem­pre più perfetto e più puro amore a Dio.

Sì: io mi consacro tutto tutto al massimo amore! [8 marzo 1921]

Davanti al tabernacolo mi pareva di sentire nel silenzio una voce dolce dolce, ma forte forte: «Padre! Padre!…». Era la voce del mio Gesù, che da dietro a quella porticina gridava soavemente, amorosamente: «Padre! Padre!».

Che cosa ho inteso in quella voce! Egli così adora, così espia, così ripara, così ringrazia, prega, geme d’amore; così si offre continuamente vittima. E’ il grido del Figlio di Dio.

Voglio unire il mio grido al suo, e voglio avere gli stessi sentimenti che Gesù ha quando grida così. Sarà questa d’ora in poi la mia preghiera preferita; e quando il sacerdote dice il “Padre nostro”, aprirò le braccia anch’io per appoggiar­mi a Gesù e dire con Lui: «Padre!…».

[5 maggio 1921]

O Padre, si compia in tutti noi, tuoi figli, la preghiera adorabile che Gesù ti rivolse prima della sua immolazione per la salvezza dell’umanità: Siano uno in noi.

Allora, consumati nell’unità tua, o Padre, noi scomparire­mo come gocce di rugiada nell’immensità dell’Oceano e, come Gesù, ogni nostro atto sarà una tua manifestazione divina e le nostre opere saranno il più efficace apostolato. Oh, si veda in noi – come in Gesù il Padre nel Figlio – Dio nell’uomo!

 

CREDO IN DIO PADRE

Sì, sì: io credo in Dio Padre Onnipotente, Crea­tore del cielo e della terra.

Credo: cioè ne sono sicuro più che se vedessi con i sensi; quante volte questi mi hanno ingan­nato, e come sono deboli: non vedo che a una certa distanza, non reggo a fissare il sole sebbe­ne sia anch’esso creato come me…

Credo così spesso ad uomini: non crederò a Dio? Credo in Dio: Dio, Dio, Dio!… Parola breve, parola immensa: Dio mio, chi sei tu? Dio mio, che io ti intenda, che ti conosca, che ti ami!

Ti adoro, o mio Dio, come gli eserciti infiniti di Angeli che in ordini sublimi bevono la tua luce e ti adorano tremando…

Dio Padre. O dolcezza, o soavità, tenerezza, for­za, nobiltà! Quanto è larga e profonda e alta questa parola: Padre, Dio Padre!

Egli è il Padre di tutto, di tutti, di mio padre e di mia madre, ed è il mio Dio e mio Padre. Padre per la creazione: sono stato portato nel suo seno da tutta l’eternità, ed Egli mi ha fatto a sua immagine e somiglianza.

Per la conservazione: ogni pezzo di pane, ogni respiro, ogni raggio di luce, ogni filo di tessuti, ogni fiore e canto che mi ricrea: è la sua pater­nità che si protrae, si stende, mi avvolge, mi penetra, mi dà vita… Lui che solo è la vita.

La redenzione: ha dato alla morte il Figlio suo per ridare a me la vita e la figliolanza nel suo Sangue. I sacramenti, in cui bevo la vita come il bambino nel petto materno, in cui la stessa car­ne e sangue, anima, divinità, meriti, santità di Cristo Dio sono per me la mia vita.

La vocazione: quale nuova vita è mai! È una elevazione della vita, una più abbondante e più delicata effusione di vita. È Dio che mi raccoglie da terra scendendo fino a me e mi stringe più intimamente a sé e mi vuole: mi chiede, mi aspet­ta, mi tormenta amorosamente, mi precede, mi segue, mi accompagna dovunque, per vivere con me e per farmi vivere di sé, per sé; e per questo fa vivere tante vite per me: il governo del mondo materiale e spirituale è tutto per me.

Pare che Dio stesso non viva che per me e che io sia la sua vita, tanto Egli è la vita mia. Lo stesso perdono, la misericordia che Egli mi usa è una vita che da lui viene a me, in me. Quanto mi ama Iddio! Come è vita l’amore, l’amore che genera e dà la vita per l’amato e fa vivere nel­l’amato! È così che si deve intendere il discorso di Gesù nell’ultima Cena: egli ama e dava sé e si sarebbe dato in cibo con il desiderio più vivo e con la volontà di perpetrare la donazione fino a me, fino a me…

E la mia donazione? Io non potrei donarmi se Dio prima non avesse donato me a me, e non mi avesse desiderato e chiesto, e non mi avesse manifestato che posso ardire di donarmi a Lui. Non oserei donarmi a un re: e mi dono invece a Dio… e con questo dono di me io entro in Lui, che mi accetta nella sua casa, nella sua vita. Io sono divino perché proprietà, possesso, cosa consacrata, di Dio… O Dio, io mi dono; e già questo è il dono di Te a me, se in me c’è il tuo amore che mi fa ardito e capace di donarmi. Tu mi vuoi bene: il bene sei solo Tu, Tu fai il bene che vuoi perché onni­potente.

Io posso resisterti, ma Tu mi aspetti, mi vuoi…, e io voglio darmi a Te, mio Dio, mio Padre, mia vita: interamente, amorosamente, per puro amo­re, in pura fede, con fede viva e attuata in tutta la mia vita che deve essere vita tua.

Onnipotente: il Dio Padre mio è l’Onnipotente! e io lo credo, io lo so. Ma la vivo questa fede? I santi la vivevano, e perciò erano anch’essi onni­potenti perché vivi in Dio e a Lui uniti per fede e per amore. La fede è la porta, l’amore è l’ab­braccio; la fede è l’occhio, l’amore è il cuore. Di che temo? e a chi resistere? chi resisterà? “Chi come Dio?” fu il grido di san Michele. Quel grido fu la domanda posta dalla fede, la doman­da di fede a tutti i futuri credenti, il grido della fede che ritorna al cielo, grido che fa tremare l’inferno e popola i cieli.

Ma se io sono in così strette e vive e forti e necessarie relazioni con Dio Padre Onnipotente: quale santità in me! quale nobiltà, sicurezza, pace! Come tutto in me deve elevarsi, spiritualizzarsi… Lui farà: sì, Lui farà. [1921]

Padre mio, non ti chiedo tante cose, né grandi cose, nem­meno poche o piccole cose: solo quelle che a te piace dar­mi, e come piace a te. Con queste io riempirò il mio giorno, il mio tempo, la mia epoca, che è questa in cui vivo; solo facendo queste avrò diritto di vivere sulla terra e meriterò l’eternità nel cielo.

SPIRITO DI FEDE

“Angelis suis mandavit de te ut custodiant te in omnibus viis tuis” (Salmo 90, 11). Dio, mio Pa­dre, ha comandato ai suoi Angeli di aver cura di me per custodirmi in tutte le mie vie: io lo so, lo sapevo, ma pure devo crederlo più vivamente. È questo che mi manca: non la fede, ma lo spi­rito di fede, che mi piace chiamare la verginità della mente. O fede, luce divina, alito di vita soprannaturale! A questo scopo dirò spesso nel giorno il gloria alla santissima Trinità per aver­ne fede viva e pura. Questa è vita.

A volte mi pare di capire tutto con fede e veder tutto bene; ma poi mi accorgo che quello era un lampo nella notte buia. Oh! si faccia giorno lim­pido, sereno. I santi vivevano di fede: “Il mio giusto vive di fede” (Romani 1, 17).

Non è lavoro di un giorno, questo, né di un anno, lo so; non devo avvilirmi se ancora non è meriggio in me. Se ho solo dei lampi, è già molto. Voglio insistere a morire cieco alle luci false, alle voci ingannatrici della carne, del mondo, dei nemici, della natura, per creare in me la vita divina. Lavoro difficile quanto è difficile morire tagliandosi via un pezzetto di carne al giorno. [19 giugno 1921

UNA FOGLIA SECCA

Una folata di vento sollevò dal giardino le foglie secche e, facendole volteggiare per aria, le portò alte, e poi via!, lontano; alcune ricaddero sulla via, altre nel fossato, altre sui tetti.

Io sono una foglia secca. Basta un po’ d’aria, e già sono alta, gonfia, leggera, in balía non so di chi, di un po’ di vento… Ricado quindi sui tetti dove inaridisco ancora di più, sulla via dove sono poi calpestato, nel fosso dove dovrò marcire.

Ma io voglio essere una foglia secca, dal mo­mento che lo sono: secca e leggera, staccata dalla mia pianta, facile al soffio soave e forte della grazia, senza più umore di terra, ma disseccata ai raggi del sole, dopo che ho ben capito che la terra non mi può dare il nutrimento per la mia vita perenne, eterna. Che il mio vento irresistibi­le mi stacchi, mi sollevi, mi porti dove vuole: sui tetti, sulle vie, nei fossi, dove vuole: io non avrò più resistenza, attaccamento, ripugnanza… nul­la!

Se un Dio si è lasciato portare dal cielo in balla del suo vento d’amore per me, per me, per me… nella culla, a Nazareth, sulla croce, nel taberna­colo, nel mio petto, e anche nei fossi, e per le vie e sui tetti squallidi delle soffitte, per me… – chi sono io, da volere stare abbracciato al tronco verde e non voler seccare e bruciare? [22 gennaio 1922]

Dal seno dell’eternità Dio mi conobbe, mi amò, mi chiamò per nome. Sigillò il mio cuore, mi prevenne. Chi mi fece mi abbia. Io credo in Dio Padre Onnipotente! Io amo l’Onnipotente! Egli mi ama… Lo sguardo suo è sopra di me sempre, puro, purificatore, consacratore, Io voglio, Egli vuole. Basta! Il cielo non fugge, mi aspetta. Io mi immergo nella vita eterna, nell’Amore. Ancora lungi da lui, ma non lungi, già sono in lui… Oh! fede, fede, fede…

COLLABORATORE DI DIO

Dio è l’Onnipotente, può fare tutto da sé, come, quando e perché vuole.

Si degna servirsi dell’uomo per ciò che riguarda l’uomo? Bontà sua. Ogni uomo pertanto deve cooperare con Dio per ciò che riguarda lui stes­so. Beato chi prima e meglio si dà a questa cooperazione, liberamente, spontaneamente, generosamente, provocando su di sé meglio e più abbondante l’azione di Dio che, assecondata, favorita dalla propria cooperazione come fuoco dal vento, opererà più perfetta l’opera di Dio in sé, la trasformazione dell’umano e la sua unione con il divino.

Se intendessimo bene il grande danno che ci procuriamo anche solo resistendo a un invito della grazia, a una ispirazione, e il grande bene, cui risponde per Dio una maggior gloria e per noi una maggiore eterna felicità, assecondando i progetti divini in noi…

Dio mio, io mi butto in Te, a Te, come in una fornace, ad occhi chiusi. Tu brucia, convertimi in fuoco, come fuoco sei Tu: “Deus caritas est et qui manet in caritate in Deo manet et Deus in eo” (I Giovanni 4, 16). Ripeterò queste parole ricor­dando che Dio si dà in cibo all’anima mia e mi prepara alla mensa dei gaudi eterni.

Vi sono in me, come in tutte le creature, delle energie latenti, degli abissi inesplorati, delle al­tezze inarrivate, delle sensazioni non gustate, delle vibrazioni mai scosse, delle voci non anco­ra intese, delle espansioni, delle violenze, delle generosità, come delle viltà, inafferrate, dei lidi dove mai l’anima ha raggiunto se stessa…

Chi, pochi anni addietro, avrebbe pensato alle meravigliose scoperte della scienza del nostro tempo? Dio mio, quanto sei grande!

Ma: e chi può sintetizzare lo scintillio di una pupilla, il gemito di un cuore, misurare la po­tenza, la energia di un amore?

Solo Tu mi intendi, e tutta l’anima mia, il mio sorriso, il gemito, l’amore mio, a Te dono: Tu girami in senso favorevole o contrario, sprigiona tutte le vibrazioni che ti piacciono, portami al di là di me stesso. Ma fa che dovunque e più in fondo e in cima a me stesso, nel centro del mio cuore, io trovi Te e non altri che Te, perché Tu sei la vita della mia vita, la mia luce, il canto mio. [22 gennaio 19221]

VOTO DI AMORE

Pensavo: se faccio i tre voti di povertà, castità e obbedienza non basta? Perché aggiungerne al­tri? Ecco quello che Gesù mi fece capire nella comu­nione eucaristica e durante la meditazione: i diversi voti sono espressioni dettagliate di ciò che in altra analisi è un voto solo; sono gradini di una sola scala; sono parti di un tutto. E il tutto è il voto di amore.

Ma se voglio fare il voto di amore con perfezio­ne, non sarà presunzione? temerità? occasione di più facilmente peccare? È cosa da ammirarsi nei santi più generosi, non è cosa da noi… E poi: saprò perseverare?

Presunzione certo se confidassi solo nelle mie forze, ma ho tanti e sì forti motivi di tenermi convinto della mia debolezza e miseria, e di credere invece nella bontà e aiuto di chi mi chiama fuori della mia barca, che farò mia la temerità e presunzione di Pietro, appoggiando­mi alla sua fede. Del resto, non presumo io di andare in cielo? e non devo amarlo anch’io il mio Dio? e non vorrò e non potrò amarlo alme­no quanto altri ha voluto e potuto amarlo? E non è Dio il Padre mio che mi ha creato apposta per amarlo? e non potrò fare ciò per cui esisto? Sarò da meno delle altre creature, delle quali il Padre mio mi ha fatto tanto di più?

Occasione di peccato? Ma allora anche qualche altro voto è occasione di peccato e da non farsi. L’amore più vivo e le legna che lo accendono e lo conservano, saranno occasione di peccato? Viva l’amore, viva il fuoco nel quale brucerò le stesse mancanze che a causa di fuoco sì beato potrò commettere. Sant’Agostino grida a tutti, ed anche a me, sì, anche a me, perché il cuore ce l’ho anch’io: “Ama, e poi fa’ quello che vuoi”. È cosa da ammirarsi nei Santi? Ma io voglio, io voglio farmi santo, e lo voglio perché lo devo, ma anche solo perché lo voglio!…

Che altro ho da fare sulla terra? I Santi hanno fatto questo voto per aiutarsene o per porlo come cimelio alla loro santità? Certo per aiutarsene: e me ne voglio aiutare anch’io.

Non è cosa da noi? Sarà allora cosa da noi quel­lo che ho fatto finora: mancanze, peccati, imper­fezioni, ingenerosità, viltà, ingratitudine? “Audent illi? et ego?”: lo hanno osato loro? lo oserò an­ch’io.

Quanto a perseverare, questo è ciò che più temo. Lo so: oggi voglio, domani lascio tutto; sono debole banderuola, una foglia secca. Ma almeno voglio provare; e se cadrò, risorgerò: almeno avrò tentato, avrò fatto del mio meglio. Se non mi metto nemmeno a camminare, come potrò pre­tendere che il Signore mi aiuti a giungere dove voglio arrivare? Gesù all’anima dice: Intanto fa’ il voto, poi vedrai. Con Gesù non bisogna misu­rare tanto a lungo il salto: conviene corrergli incontro, Egli ci sosterrà o ci rialzerà. È meglio cadere per foga di correre, che non volersi muo­vere.

Se io trovassi delle anime, sorelle alla mia, che volessero, che amassero, che bruciassero, che mi aiutassero a correre, sarei felice.

Io sono cristiano, figlio di Dio; Dio mi è Padre. Egli mi vuole santo: di che temo, o cosa vorrò? Voglio amarlo; è tutto. Voglio fare un voto solo: amare, il massimo, il più puro. Lo esprimerò in tanti modi, in tanti voti, ma: solo amore.

La sposa dona le sue cose, il suo corpo, la sua volontà, e poi? e poi dice: amo! Io farò così con lo Sposo mio Gesù e con il Padre vergine del cielo. O Spirito santo Amore, brucia tutti i cuori e anche il mio. Io voglio dare tutto a Chi ha dato tutto. Non l’ho detto tante volte: “Gesù mio, tutto tuo, tutto tuo”? Sì, voglio fare il voto del tutto, che non è poi che il voto del puro e massimo amore.

Certamente devo ricordarmi di quanto mi è sta­to suggerito: il voto d’amore è certo l’ottimo, però è troppo indeterminato perché generale, e se lo si vuole determinare si cade in troppe minuzie che portano angustia. Lo si faccia, quindi, e lo si ripeta spesso, intendendo compendiare in que­sto solo ciò che è materia dei tre voti di povertà, castità e obbedienza, i quali rispecchiano la tri­plice verginità di corpo, di cuore e di mente, e la totale e perfetta consacrazione di sé a Dio Trini­tà. [22 gennaio 1922]

O Padre mio, eccomi qua.

Voglio solo quello che a te piace, come a te piace, se a te piace, perché a te piace – perché voglio amare te solo, fitto ad odiare la mia stessa vita. Credo e voglio credere. Aiutami sempre a credere che tu mi ami da Padre. Mi basta.

 

CLAUSURA

“Omnis terra adoret te, et psallat tibi: psalmum dicat nomini tuo”.

“A te si prostri tutta la terra, a te canti inni: canti al tuo Nome”. (Salmo 65, 4)

  1. In Dio, Vita e Amore.

Dio! Parola breve, eppure che cosa di più vasto e incomprensibile? I cieli, gli spazi sterminati finiscono là dove Dio appena comincia. Solo al pronunciare questo Nome e all’udirlo, la mente nostra si allarga, così che si perde e sfuma oltre gli oceani, al di là delle stelle più lontane. Noi non siamo neanche come le scodelle delle ghian­de.

Eppure questo Dio pare ami formarsi un creato entro il quale racchiudere se stesso e farsi trova­re. Anzi nello stesso creato pare abbia scelto questa terra dove posare con più effusione la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà, come in una esposizione compendiosa delle sue perfe­zioni.

Sulla terra, per tanti secoli Dio non ebbe una casa che fosse la “casa sua”; e a Giacobbe fece capire che Egli abitava qua o là, quasi nomade come i primi patriarchi, riservandosi di seguire il suo popolo con i suoi portenti o di manifestar­si ai suoi prediletti come ad Adamo nel Paradiso terrestre, e poi più giù fino a che a Mosè parlò sull’Oreb e poi sul Sinai, e nell’Arca o Padiglione fra le tende. Quindi chiese a Davide la sua casa, e se la fece costruire da Salomone; e per tanti secoli ebbe soltanto una casa, per quanto ricca di arte, di ori, sete e pietre preziose, e vi abitava in una sola città, fra un piccolo popolo.

E seppe Dio farsi più vicino agli uomini, fra i quali disse essere sua delizia abitare (cfr. Prover­bi 8, 31). Giunse a farsi uomo, ed assumere la nostra carne umana ed abitò fra noi, così inti­mamente che di più non è possibile immagina­re: nel seno castissimo dell’Immacolata. E passò al presepe, alla casetta di Nazareth, alle borgate della Palestina: e dovendo risalire al cielo, trovò un miracolo ancora possibile alla sua sapienza e potenza, al suo amore, per rimanere ancora e sempre sulla terra, ancor più piccolo, ancora più piccola cosa, quasi proprio una cosa piccola piccola, un pezzetto di pane, leggero, quasi tra­sparente… E perché così? Per potersi dare, e potersi chiudere in un cuore, confondersi, con­sumarsi, finire così, dato e donato, mangiato, assimilato.

Dio sembra avere una grande preoccupazione o predilezione; quella di entrare, racchiudersi nel­l’intimità, così da scomparire perfino.

L’immenso allora scompare, e gli spazi si annul­lano, le stelle svaniscono. Io ho il mio Dio den­tro di me, io sono più grande del mio Dio se sono capace di contenerlo, se l’ho attirato den­tro di me; e lo faccio mio, se lo faccio vivere in me.

  1. Dio mostra così un grande desiderio di clausura.

Già diceva dell’anima: “La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Osea 2, 16); e parlò di “giardino chiuso, fontana sigillata” (Cantico 4, 12), di “cella del vino” (ivi 2, 4).

Pare anche che Dio desideri ciò che non ha, così che l’immenso ami farsi piccolo; Colui che gli spazi non comprendono, farsi contenere, ed entrare, e chiudersi e scomparire, per potersi dare e dare. O per avere? Sì, forse proprio dare per avere, avere il nostro cuore, la nostra anima, il nostro “io”.

Molte anime predilette hanno inteso il linguag­gio dello Sposo, e hanno abbandonato tutto per darsi, per lasciarsi trovare, e per chiudersi: pri­ma nelle grotte, nella solitudine dei deserti, dei monti, dei boschi; poi nei monasteri, nelle celle. Attraverso i secoli, l’umanità ha sempre risposto a questo Dio amante e ha saputo isolarsi, e an­dare sola con Lui, sola con Lui solo!… Pure oggi: quante anime vivono sole con Lui solo!…

  1. Dio però, si è rivelato non soltanto nella so­litudine, ma anche nelle membra del Corpo mi­stico di Gesù, nella sua Chiesa, in ogni uomo, fosse o non fosse redento. Come oro greggio si è fatto vedere rilucente nelle carni del lebbroso, fra le catene dei carcerati, nelle piaghe dei ma­lati, nei bambini innocenti, in tutti i sofferenti, dovunque ci fosse un’anima fatta ad immagine e somiglianza di Dio: e anche là l’umanità, sitibonda del suo Dio, lo ha visto, lo ha cercato, e quante volte è entrata nelle carceri, negli ospe­dali, ha baciato le piaghe putride, ma rilucenti di un qualche cosa di Dio, ha solcato il mare per cercarlo sulla fronte dell’idolatria, dove l’acqua lo avrebbe lavato e scoperto.

Allora la sete di Dio si è allargata e tante più anime si sono sparse alla ricerca di quell’oro divino. La clausura fu trovata ristretta, l’umani­tà ha forzato le inferriate, le sbarre e i catenacci, ed è corsa come cerva assetata dove i suoi ardo­ri avrebbero potuto assopirsi (cfr. Salmo 41, 2­3), e Dio fu trovato dovunque.

L’anima si è fatta una clausura e se l’è portata con sé, quasi formando in se stessa una cella per abitarvi con il suo Diletto.

  1. Così l’anima si comporta a somiglianza della chiocciola, che porta con sé dovunque la sua casa, sempre pronta ad entrarvi e a rinchiudersi in essa.

La chiocciola abita sola nella sua casa, né vi ammette cosa alcuna, né amici né nemici. E nemmeno esce dalla sua casa tanto da staccar­sene e da non ritrovarla al primo momento che la desideri o che ne abbia bisogno; casa che è piccola, sì, ma sufficiente, e casa così leggera che può facilmente portare con sé dovunque; purtroppo fragile assai, eppure ricca di quanto occorre, e poi bella, provvidenziale soprattutto, perché di solito colorata così da passare inosser­vata fra gli oggetti in mezzo ai quali di solito la chiocciola passa la sua vita.

È così che l’anima porta in sé la sua clausura, chiusa in se stessa, eppure aprendosi una via per ogni lido e per ogni terra. Essa trova nella sua casa quanto le è necessario, e tanto meglio quanto di meno ha bisogno: che giova un palaz­zo se una cella mi basta? C’è tutto là dentro: ogni gioia, ogni fecondità, ogni felicità; chiun­que tenti di entrarvi vi si deve sentire estraneo, intruso, non a suo posto, e uscirne al più presto, fosse pure un diamante, fosse pure una stella: Lui solo.

E questa clausura è così leggera che facilmente segue l’anima che vi abita dentro, sempre e in ogni momento capace di celare i tesori che ad altri non sono dati e difendere chi la deve abita­re.

Purtroppo questa clausura è fragilissima, così che bisogna custodirla gelosamente se si vuole esserne custoditi a nostra volta, e non uscirne mai tanto da staccarsene, per non rischiare di non ritrovarla al momento opportuno.

Con essa si passa inosservati dovunque si viva, e il passo è così silenzioso che non fa il minimo rumore, trovandoci presenti dove nessuno forse ci pensa.

Ancora una somiglianza splende con la buona e muta chiocciola. Questa ha quattro occhi sopra quattro lunghi tentacoli, i quali sono inoltre flessibili e possono ripiegarsi e ritrarsi entro se stessi. Sembra mostrare così che due occhi non bastano per la prudenza che ci è necessaria dovendo vivere fra gli sterpi e le spine del mon­do; ma che anche questi sono troppo, e si devo­no agilmente ripiegare in dentro, per la conside­razione, la riflessione, la meditazione su quanto si è visto, per vivere la vita interiore sempre e dovunque.

La chiocciola muta e silente, non resiste, pare non abbia altra arma che quella difensiva, e pur questa fragilissima: la sua clausura.

Non ha veleno, non morde, non ha nemmeno ossa di scheletro, è mite, cede, rinuncia, non resiste, non si oppone. Passa se il luogo è aper­to, e se è aperto così da entrare tutta, con la sua casa; istancabile, cammina di giorno, di notte; e nell’inverno sa chiudersi così dentro di sé da passare dei mesi sotto le foglie, nulla vedendo, nulla cercando, come se non fosse nel mondo, come se il mondo non fosse per lei.

Sì, dobbiamo vivere in perfetta clausura così, e così saper comandare al piede, alla mano, all’oc­chio, alla bocca, all’orecchio e al cuore, e soprat­tutto alla nostra fantasia. Saperci ritirare ad ogni momento dentro, non uscirne mai del tutto, non lasciarci mai separare dalla nostra cella; non resistere, non far rumore, non offendere, esser­ne anzi incapaci; vigilare con quattro occhi, e rivolgerci spesso al nostro interno, e tacere, non udire, non lamentarsi, tutto soffrire e godere, e vivere quasi non si fosse neanche: ma esserci però, esserci per la vita vera, per Lui e con Lui e in Lui, per dare al Padre in unione allo Spirito santo ogni onore e gloria, per tutti i secoli (dalla liturgia eucaristica).

  1. Questa clausura avrà una chiave, una legge: quella della carità vera verso Dio e verso il pros­simo: l’una e l’altra ci rinchiuderanno per cono­scere sempre meglio e amare sempre più il nostro Dio per la contemplazione, per la medita­zione, per il silenzio, la mortificazione, per co­noscere e compatire le miserie del prossimo. E questa stessa carità ci spingerà poi fuori per le opere di carità, per la sola gloria di Dio.

Figli di Dio, noi dobbiamo aver sempre di mira e tener presente che, adottati dal Padre in figli, lo potremo essere solo sull’esempio e l’imitazio­ne del Figlio di Dio Unigenito.

“Il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio” (Giovanni 1, 1). Ecco la sua clausura: il seno del Padre, in cui vedeva tutto ed amava, amato e visto dal Padre. La gloria del Padre e la nostra Redenzione lo trassero di là in terra. Qui si è formato un’altra clausura, il seno di Maria, il tabernacolo, il nostro cuore, e l’abiezione: una clausura che può sempre portare con sé, silente, umile, nascosta, inosservata. Egli regna nel mondo é nei cuori, passa per le strade, chiuso eppur palese nel cuore dei suoi, nel loro conte­gno, nelle loro virtù, nel loro zelo. È sempre il Cristo nascosto e palese, dentro e fuori della sua clausura.

Così dobbiamo starcene noi nel seno del Padre nostro, e uscirne senza uscirne, per il prossimo, e portare Cristo e il Padre nel cuore con noi e nel cuore dei nostri prossimi.

Gesù deve essere la nostra clausura nel seno del Padre, e noi essere la clausura sua nel nostro seno e nell’anima dei nostri cari. Portare con noi Dio, per le strade, essendo in Lui; esprimerlo fuori perché lo abbiamo dentro, darlo senza privarcene, stare in Lui senza toglierci al prossi­mo: ecco quello che fa continuamente il Figlio di Dio e che insegna a noi.

La grande chiave, dovunque e sempre: la carità, e questa regolata dalla prudenza e dall’obbedien­za. Le ali ci sollevano al cielo purché si pieghino verso la terra; i piedi ci portano in avanti pur­ché, se uno avanza, l’altro si rassegni a stare indietro, il cuore stesso vive nel duplice movi­mento di aprirsi e chiudersi.

Il tabernacolo non ci dà il Redentore se non si apre, né lo conserva se non sta chiuso.

Così Maria potè darcelo perché lo custodì nel suo cuore. Il seno stesso di Dio non avrebbe potuto darci il Figlio divino se non lo avesse eternamente concepito e generato, e non si fosse aperto per lasciarlo venire a noi pur sempre conservandolo in sé.

Così noi andremo al prossimo conservandoci nel seno del Padre, e allo stesso ritorneremo ogni volta che grideremo: «Padre! Papà!…». Diciamo con Gesù, e con Gesù torniamo e fissia­mo la nostra dimora nel seno del Padre, la cui gioia eterna è nei cieli. Amen!

  1. Dio ha anche Lui rotto la sua clausura, o meglio ha insegnato a noi come osservarla, dan­do a noi il suo stesso Unigenito, facendoci par­tecipi della sua stessa divina natura, introducen­doci come figli nell’intimità della sua vita e della sua gloria, e comandandoci di amare allo stesso modo, e per amor suo, il nostro prossimo.

Ci ha collocati in un corridoio di cui Egli occu­pa un lato, e pone il prossimo nostro dall’altro, e vuole che ne osserviamo la più gelosa clausura. Così Egli giunge a noi e per noi al prossimo, e noi a Lui e al prossimo, e il prossimo a noi e a Lui, in una più larga ma non per questo più aperta, ma anzi più rigida clausura. Egli si è dato a noi e per noi, perché noi lo dessimo e a Lui tendessimo, e portassimo altri figli, fratelli, nostri, che lo chiamino con noi eternamente e beatissimamente: Papà!…

È il grido sceso a noi dal cielo, simile al rumore della chiave che apre il cielo alla terra e la terra al cielo, perché cielo e terra abbiano un solo amabilissimo Papà.

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