Mar 042016
 

donmarioalbertiniLa parabola che il vangelo ripropone è molto nota: descrive l’atteggiamento di un padre, immagine di Dio, a confronto con l’atteggiamento opposto dei suoi due figli. La comunione, nell’immagine di un banchetto, alla quale sono invitati è per loro una grande sfida: faranno festa insieme? Accetteranno di sedersi alla tavola della misericordia preparata per loro dal Padre? Il vangelo fa a noi la stessa proposta e attende la nostra risposta. Messaggio analogo viene dalla prima lettura: Dio inizia con il suo popolo un’epoca nuova di una storia in cui è possibile non solo la liberazione dal male, ma soprattutto costruire il nuovo, un futuro diverso. E nella seconda lettura: se questa è l’opera di Dio, che con il dono del Figlio investe totalmente se stesso nella nostra storia, quale deve essere il sentimento del credente, chiamato a fare da ambasciatore per tanti altri di questo nuovo stato di cose?

Dio perdonerà, è il suo mestiere. No, il perdono di Dio non è il risultato di un mestiere. La frase, piuttosto cinica, “Dio perdonerà, è il suo mestiere” l’ha detta un filosofo che in Dio non credeva. Per il Signore, perdonare non è un mestiere, è la disposizione del suo cuore di Padre – che perdona, sì, ma soltanto chi ritorna a lui con sincerità.
Come nella parabola, che anche se sentita tante volte è sempre toccante. Non ve la commento. E’facile riscontrare in essa anche la nostra storia di peccato e di perdono. Vorrei invece far notare che in essa anche le cose non dette, sottintese, hanno importanza. E sono tre queste cose non dette: 1. non sono riferite le reazioni del padre quando il figlio se ne va;  2. non c’è una conclusione; 3. non è detto quale sia lo scopo della parabola.

In primo luogo, c’è una zona di silenzio, che riguarda il padre:

  • silenzio quando il figlio gli chiede i soldi
  • silenzio quando questi se ne va: il padre non costringe e non trattiene, rispetta la volontà di scelta
  • nessuna parola di rimprovero quando il figlio torna. Il padre parla solo per far festa: era morto – dice, – ed è tornato in vita.

E’ il silenzio di Dio nei nostri confronti: un silenzio che esprime rispetto, pazienza e fiducia. Gli basta metterci di fronte al suo amore.

In secondo luogo la parabola non ha una conclusione vera e propria:

  • non è detto se il figlio minore, ora ritornato, sarà fedele a questa sua scelta o se, attirato dal desiderio di qualche nuova avventura, se ne andrà di nuovo; uno scrittore ha scritto un romanzo immaginando una nuova fuga. ma la parabola resta in sospeso al riguardo;
  • e non è detto se il figlio maggiore si lascia convincere e abbraccerà con affetto sincero il fratello ritornato, o se farà l’esigente e il permaloso.

La parabola non è conclusa perché essa non è soltanto la storia dei due figli, non dice soltanto la stoltezza del giovane che se ne va e l’egoismo del maggiore che vive in casa ma senza affetto…

E’ soprattutto la storia dell’amore del padre, e non ha un finale proprio perché l’amore del padre non finisce.

Infine non è detto in modo esplicito lo scopo della parabola. Ma esso è chiaro: Gesù vuole farci capire che Dio ci aspetta perché ci vuole bene. Con la parabola Gesù ci insegna che Dio agisce con noi da Padre. E per questo vuole perdonarci; non per mestiere, ma perché è Padre. Talvolta mi chiedo: Gesù ha mai pensato a me? Ebbene, credo proprio che pensasse anche a me quel giorno, o quella sera, in cui ha esposto questa parabola.

E allora tocca a me darle un finale; lo posso fare se, tornato a Dio, mi rivolgo a lui per incontrare e accogliere il suo amore senza fine – l’amore del Padre che è nei cieli.

(Il commento di don Mario Albertini)

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