Le immagini che giungono dall’Ucraina ci sconvolgono. Sono quelle di un teatro di guerra. Scene di morte, di dolore, di paura. Ma, insieme, ci colpisce il veloce e interminabile esodo di un popolo di donne, di bambini e di anziani (agli uomini tra i 18 e i 60 anni è proibito lasciare il Paese) che si muove verso i confini orientali dell’Unione Europea, la Polonia, la Slovacchia, l’Ungheria, la Romania.
A decine, a migliaia, persone che fino a due settimane fa facevano una vita normale – la “nostra” vita – si sono trovati a scegliere tra il restare in città e villaggi a proprio rischio e pericolo e affrontare un viaggio che è sempre un ignoto e comunque un esilio. Leggendo le cronache, scorrendo le immagini, seguendo i filmati, non vediamo quel che siamo soliti associare alla parola “rifugiati”. Gli uomini sono in minoranza, i bambini sono tantissimi, le donne li accompagnano per mano, i vestiti sono caldi, le valigie nuove, ci sono gli animali di compagnia, i computer, i passeggini… Un mondo simile al nostro mondo è stato precipitato, dalla barbarie della guerra e dallo scatenarsi del nazionalismo, in una condizione impensabile fino a quel momento improbabile. In un batter d’occhio, senza che ci fosse una minima preparazione. Molti – come potrebbe dire ciascuno di noi se fossimo al posto loro – constatano con dolore e stupore: «Ecco, siamo diventati profughi». In Ucraina «scorrono fiumi di sangue e di lacrime», ha detto il Papa. Sono le lacrime e il sangue cui non eravamo abituati.
Colpevolmente non lo eravamo, perché ci siamo cullati nell’illusione che palestinesi, siriani, yazidi, afghani, eritrei, tigrini, ahmara, yemeniti, congolesi, somali, rohingya, mozambicani, venezuelani, non fossero accostabili alla nostra esperienza esistenziale. Sbagliavamo. Quanto accade a poche centinaia di chilometri a Est di Trieste ci ricorda che, drammaticamente, il mondo è uno solo, che il demone della guerra può colpire ora qua e ora là, che non esistono paradisi intoccabili nel mondo globalizzato. E quindi quelle lacrime e quel sangue sono proprio come le nostre lacrime e il nostro sangue. Davvero, come scriveva Umberto Saba, poeta mitteleuropeo che ha attraversato le due guerre mondiali, «il dolore è eterno, / ha una voce e non varia». Il dolore dei profughi che vengono da città più o meno come le nostre, che hanno dovuto lasciare appartamenti più o meno come i nostri, che hanno dovuto scegliere cosa portarsi dietro più o meno come faremmo noi, ha la stessa voce che avrebbe avuto il nostro dolore se il male che percorre la storia avesse colpito un po’ più a Ovest. Le storie sono identiche, i sogni pure, il desiderio di futuro lo stesso. E questo contribuisce a spiegare l’ondata di solidarietà che ha pervaso anche la Penisola, la nostra indignazione, la nostra ospitalità, in passato non sempre così pronte. Accogliamo questi rifugiati come fratelli. Anzi, come sorelle. Perché somigliano alle nostre sorelle, alle nostre madri, alle nostre figlie.
Quanto accade ci spingerà a riflettere di più, e in maniera diversa rispetto agli anni scorsi, sul tema dei richiedenti asilo? Quel che vediamo ci aiuterà a reagire con buonsenso – anche su questo si è soffermato il Papa nell’Angelus di domenica –, a comprendere che ogni guerra è un abisso da richiudere al più presto, a rifiutare una deriva bellicista, a non soffiare sul fuoco?
Non sappiamo quali saranno gli effetti sul breve e sul medio periodo. Resta in ogni caso la consapevolezza che questi anni difficili, il terribile tornante della storia che stiamo percorrendo, tra la pandemia e la guerra in Ucraina – quasi epifenomeno di quella ‘terza guerra mondiale a pezzi’ di cui tante volte ha parlato papa Francesco –, ci stanno facendo comprendere sempre più come davvero, in questo mondo globalizzato siamo tutti sulla stessa barca. Oggi sono gli ucraini, che sono ‘come noi’, ma ieri è toccato ad altri ‘come noi’, che non abbiamo riconosciuto tali. Salvare loro oggi, significa salvare noi: perché ci si salva solo insieme.
Di M.Impagliazzo, da Avvenire del 10 marzo 2022
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