Una Parola che rivela il cuore. A fronte dell’evento di salvezza che è la morte e risurrezione di Gesù, non è sufficiente una fede fatta di “parole”. Le opere sono i veri frutti della fede, dai quali è possibile riconoscere la bontà o meno del cuore dell’uomo.
Commento di don Mario Albertini
A partire dall’ultima frase del brano evangelico, c’è una bella domanda che dovremmo fare a noi stessi: di che cosa è pieno il nostro cuore? Forse di un po’ di bontà, ma anche un po’ di cattiveria; un po’ di speranza e fiducia, e un po’ di delusione e rassegnazione; un po’ di generosità, e un po’ di grettezza e mediocrità. Potremmo continuare, trovandoci anche un po’ di fede in Dio e di amore al prossimo – e molto, troppo egoismo
Ha detto bene il Manzoni: il cuore umano è un guazzabuglio, e lo paragonava a un orto da tempo trascurato: qualche ortaggio che sopravvive, ma molte, molte erbacce. E un altro scrittore, Dostoevskij, definiva il cuore un campo di battaglia tra il bene e il male, anzi lui diceva: tra Dio e Satana.
E allora, come capire il nostro cuore? come sapere di che cosa è pieno? e come pulirlo dalle erbacce, e dargli una pienezza di bontà?
Il Signore dà come criterio quello di esaminare di che cosa parliamo volentieri: la bocca, dice, parla dalla pienezza del cuore. E anche nella prima lettura è detto: la parola rivela il sentimento dell’uomo.
Ad esempio: se parliamo volentieri di noi stessi, e critichiamo volentieri il prossimo, è segno che siamo egoisti. E il nostro punto debole è proprio la critica degli altri.
Le due immagini che usa Gesù – quella di chi è cieco ma vuol essere guida a un altro cieco, e quella di chi vuol togliere il bruscolo dall’occhio del vicino mentre il suo occhio è oscurato da una trave – ci impongono di riflettere su noi stessi: per vedere se in noi non prevalgono l’egoismo e la presunzione. Ma non basta capire il nostro cuore: come lo possiamo riempire bene?
Dobbiamo muoverci con bontà verso il prossimo coltivando una coscienza di rapporto sincero nella vita familiare, nell’amicizia, nell’impegno per la comunità cristiana e sociale, sostenuti da un gioioso rapporto con Dio. Vorrei dire: essere capaci di testimoniare che Dio non ha sbagliato a darci l’esistenza e la vita. Allora sì che la pienezza del cuore sarà la bontà.
Queste parole di Gesù non vanno ascoltate come fossero soltanto norme di buon comportamento. Certo sono insegnamenti molto semplici, “norme di vita” quotidiana, ma sono anche molto importanti e diventano “fonte di saggezza” (espressioni della preghiera iniziale di questa Messa) se capiti nella luce giusta. Il Signore parla ai suoi discepoli, ai quali poco prima aveva proposto di essere misericordiosi com’è misericordioso il Padre che sta nei cieli. Vale a dire che la bontà che egli domanda parte da un fondamento soprannaturale, e diventa partecipazione della bontà di Dio e un cammino di risposta alla nostra vocazione, che è vocazione alla vita, alla vita eterna.
Ci aiuta in questa visione soprannaturale quello che scrive san Paolo nella seconda lettura che la liturgia di oggi ci propone: in Gesù Cristo, Dio ci dà la vittoria sul male e sulla conseguenza del male che è la morte, vittoria di cui godremo quando questo corpo corruttibile sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità. E se per essere davvero buoni ci vuole perseveranza e ci vuole fatica, questa fatica non è vana, non è inutile, perché è nel Signore.
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