Gen 302021
 

“Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge”. (Papa Francesco)

Dunque, papa Francesco ha deciso che sarà beatificato Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”. Merita riflettere sulla lezione che ce ne viene. Come è noto, ai beati la Chiesa riconosce le “virtù eroiche”. Nel caso di Livatino l’eroismo non è quello che egli era perfettamente consapevole di essere nel mirino della mafia e aveva rifiutato la scorta. Il suo eroismo si esprimeva non in un gesto ma nell’esercizio quotidiano del suo dovere professionale e civile. Quello di un magistrato integerrimo e rigoroso, ma umile e riservato.

Si occupava di processi di peso e tuttavia non cercava mai pubblicità, non rilasciava interviste. E’ ragionevole pensare che, nel suo come in altri casi di beati, da parte della Chiesa vi sia un intento pedagogico contestualizzato al nostro tempo. Una “lezione” non solo per i fedeli, ma anche per i magistrati e per tutti i cittadini. Per i magistrati, che sono stati investiti da casi di malcostume che ne hanno incrinato l’immagine e che talvolta cedono alla tentazione della visibilità e del protagonismo.

Per i cittadini che, per converso, sull’onda di corrosive e indiscriminate campagne d’opinione, sono indotti a nutrire sfiducia sull’intero corpo della magistratura, che è un caposaldo dello Stato di diritto. Gli uni e gli altri, magistrati e cittadini, fatti consapevoli che quello affidato a tutti i  magistrati, e segnatamente ai giudici, è uno dei compiti più alti e difficili: giudicare le persone, decidere della loro libertà.  

Un impegno “sacrale” da far tremare le vene e i polsi, che, un tempo, conferiva loro un’aura sacerdotale e spesso li spingeva a condurre una vita quasi ascetica, alla rinuncia a una umanissima rete di relazioni che avrebbero potuto condizionarne l’imparzialità. Livatino prossimo beato ci parla, poi, di una santità genuinamente laicale. Egli aveva una sua pratica di fede e si era formato alla scuola dell’Azione Cattolica, ma la sua santità e il suo martirio sono stati vissuti e si sono compiuti nell’esemplare esercizio del dovere quotidiano. Come usa dire, non un santità “nonostante”, ma “dentro” e “attraverso” il servizio alla città dell’uomo. Più specificamente come operatore del diritto, come magistrato che applica le leggi ed emette sentenze. Lo ha notato il Papa nel motivare la sua decisione: “Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge”. Ministero è parola pregnante nel lessico cristiano, se ne ricava una lezione circa il senso-valore anche cristiano del diritto, dello Stato, delle leggi. Essi meritano la dedizione cristiana. Non è sempre chiaro alla comune coscienza credente, abituata a conferire senso e valore cristiano più all’obiezione di coscienza alla legge ingiusta – senza cedere alla tentazione di dilatare a dismisura i confini della pratica dell’obiezione, che deve restare pur sempre un’eccezione in regimi politici non autoritari – che non appunto alla regola del dovere di obbedire e di applicare le leggi, necessarie alla ordinata e pacifica convivenza. Che è un bene prezioso per tutti e dunque anche per i cristiani. Infine, la beatificazione di Livatino suggerisce una riflessione sul martirio civile, su chi “muore per la città”. Tema molto studiato da vescovi e teologi siciliani. Ricordo in particolare il vescovo Cataldo Naro. Il concetto di martire cristiano è preciso e circoscritto: designa colui cui è inflitta la morte “in odio alla fede”. E’ vero che gli assassini di Rosario lo deridevano come “santocchio”, ma non lo hanno ucciso per le sue pratiche di pietà. Semmai in quanto magistrato, cioè per il suo servizio alla città dell’uomo. Come fu per Bachelet o per Borsellino. E’ significativo ed è bello che la Chiesa si apra a un’accezione più ricca ed estesa del concetto di martirio ricomprendendo coloro che hanno pagato con la vita la loro dedizione senza riserve alla vita della polis. Nel segno di una fede che fa tutt’uno con la carità. Vi sottende l’idea di una Chiesa e di cristiani che concepiscono la propria missione non centrata su di sé, ma “per la vita del mondo”. Una “Chiesa in uscita” (Francesco), proietta “fuori dal tempio” (padre Sorge).                                                                           Da Avvenire, di F. Monaco

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