Dic 192020
 

Ma quello che accade ci sfida a riconoscere che forse abbiamo bisogno di essere salvati noi dal Natale, di aprire il cuore al Dio che si è fatto compagno di strada dell’umana fragilità

E’ ancora tempo di Covid, è di nuovo tempo di severo distanziamento. Bisogna stare lontani, ci dicono e ci ripetiamo, per ridurre il pericolo di contagio. E così sia, per la salute e per il bene personale e collettivo. Ma è inutile negare che dentro il rispetto di questa precauzione pur necessaria si sta insinuando una sottile diffidenza nei confronti dell’altro, qualcosa che forse non abbiamo il coraggio di ammettere apertamente e che però sta lentamente plasmando il nostro sguardo sulle persone e sulle cose, la modalità con cui ci approcciamo alla realtà.

E’ il frutto avvelenato di un virus che sta rivelando, anche agli occhi di chi lo aveva sottovalutato, la sua pericolosità e pervasività; inquina i pozzi dove si abbevera la nostra umanità e forse lascerà tracce indelebili nei cuori e nelle menti, come certe radiazioni e mortifere che entrano nel sangue e rilasciano lentamente ma inesorabilmente i loro effetti. Covid-19 sta contaminando milioni di corpi, ma come possiamo impedire che contamini anche i cuori? C’è qualcosa che ci permette di stare a testa alta di fronte a questo nemico subdolo e invisibile? Possono bastare certe frasi rassicuranti come “andrà tutto bene” e “ce la faremo” che ci scambiamo al telefono o che qualcuno espone ancora ai balconi o alle finestre? Non è un caso che molti cartelli e striscioni con queste parole, così numerosi durante il lockdown della primavera scorsa, siano scomparsi e pochi ne siano comparsi di nuovi, quasi come una tacita conferma di quanto fosse fragile quell’auspicio fondato solo su una sorta di “ottimismo della volontà” che il tempo e la realtà hanno provveduto a mettere in crisi. 

Ci vuole di più, per reggere l’urto di questo tempo. Ci vuole qualcosa che sfidi lo scetticismo, la rassegnazione, il cinismo, la paura che stanno prendendo possesso dei cuori, tutte espressioni di un nemico potente che si chiama nichilismo, mancanza di ragioni forti che diano solidità all’esistenza. Ci vuole qualcosa di speciale per affrontare questa sfida. Anzi, ci vuole qualcuno. Qualcuno che testimoni un modo di vivere e di rapportarsi con gli altri fondato sulla coscienza che nessuno si salva da solo, che c’è una comunanza ultima oggi più che mai evidente, la stessa che papa Francesco ci ricorda nell’enciclica Fratelli tutti. Per noi cristiani questa è la stagione – tanto impegnativa quanto entusiasmante – in cui mettere alla prova se la fede è capace di reggere l’urto di un attacco potente e pervasivo come quello contenuto nell’invisibile coronavirus che ci assedia. O se invece ci rassegniamo a considerarla un bel soprammobile da collocare in evidenza su qualche mensola del salotto buono dei valori, qualcosa che può al massimo regalarci un po’ di consolazione ma che non scorre nelle vene, non diventa esperienza vissuta e testimonianza da offrire al mondo. In questi giorni da più parti si dice che “dobbiamo salvare il Natale”, riferendosi alla necessità di invertire il trend negativo dei consumi. Ma quello che accade ci sfida a riconoscere che forse abbiamo bisogno di essere salvati noi dal Natale, di aprire il cuore al Dio che si è fatto compagno di strada dell’umana fragilità abbracciandola con un Amore più grande di quello che l’uomo è capace di produrre. Il mistero dell’Incarnazione – che ci prepariamo a celebrare tra poco, ma che ogni giorno possiamo rivivere nell’esistenza quotidiana – ci parla di un Dio che assumendo l’umana condizione è stato capace di vincere ogni distanziamento. Siamo capaci di riconoscerlo anche oggi? 

 Da Avvenire, di G. Paolucci

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