Vedi, non esiste solo il bisogno di mettere insieme il pranzo o la cena, ma di avere un riferimento, di sapere che puoi contare su qualcuno
“Il bisogno materiale c’è ed è tanto. Ma c’è un altro bisogno che la pandemia ha acuito: il bisogno di relazioni”. Dina Rigolli è operatrice del centro d’ascolto della Caritas diocesana, il suo ufficio di solito è un porto di mare, tra il vociare dei bambini e le chiacchiere di chi è in attesa di un colloquio. Dal 24 febbraio, invece, regna il silenzio. I giochi nello spazio verde di fronte all’ingresso quest’estate hanno aspettato invano i bimbi del Grest che Caritas organizza per le famiglie che faticherebbero a pagare una retta, per quanto contenuta. “C’è una povertà educativa che riscontriamo in alcuni dei nostri utenti, per questo nel lockdown abbiamo cercato, oltre ad affiancare chi non aveva gli strumenti per la didattica a distanza, di fornire materiale per passare del tempo con i più piccoli: un libro, dei pennarelli, qualche gioco”.
Il centro d’ascolto sta riaprendo poco alla volta, su appuntamento. Ma non è mai venuta meno la vicinanza, nonostante gli stessi operatori di Caritas siano stati colpiti dal coronavirus, alcuni isolati in casa, altri ricoverati in ospedale. “Abbiamo attivato una linea telefonica, rintracciato chi stavamo seguendo per sentire come stavano. Mi ha fatto male non ricevere risposta da qualcuno e sapere, molto dopo, che erano mancati”. Con la mensa chiusa – ha riaperto da poco, ma solo per cucinare e preparare i cestini che vengono distribuiti in modo scaglionato al centro “Il Samaritano”, polo di svariati servizi della Caritas piacentina – l’incontro diventa più difficile. “Cerchiamo di salvaguardare un minimo di relazione, per tanti il pasto era un’occasione per stare insieme. Vogliamo che si sentano persone riconosciute nella loro dignità – precisa l’operatrice – non solo numeri di una fila che si è allungata moltissimo”. In mensa si è passati dal preparare ogni giorno da 140 a 260 tra pasti e cestini, +86% rispetto al periodo pre-covid. E il servizio borse viveri, accanto alle 400 famiglie già in carico, ha visto aggiungersi 49 nuclei, di cui 30 mai incontrati prima e 19 ritornati dopo anni di assenza. Tra questi ultimi c’è Rosa, mamma peruviana con due figli in età scolare, cameriera in un albergo che non ha ancora riaperto. “Sto pensando di tornare a casa” dice, col tono di chi, guardando al suo percorso migratorio, sente il peso del fallimento. “Dopo tanta fatica, era riuscita a portare qui i suoi bambini, “voglio farli studiare”, mi ripeteva – sottolinea Dina -. Ora deve ricominciare da capo”. Rosa è il volto di una delle povertà collegate alla pandemia sociale. “Uno, perchè non c’è un’unica vulnerabilità, ma tante” avvisa l’operatrice. Se un tratto comune c’è – dalla badante che si trova in strada perchè la persona che accudiva è morta all’anziano solo al senza fissa dimora storico – è una diffusa tendenza alla depressione. “Diverse persone malate o in isolamento, non sapendo come fare la spesa e non fidandosi di altri canali, chiamavano in parrocchia. I sacerdoti davano il nostro numero. Ho conosciuto così una signora che aveva il marito in ospedale e nessun altro appoggio.
La chiamavo un giorno sì e uno no. Appena ho potuto, le ho portato io stessa una spesa sul pianerottolo. Adesso dovremmo incontrarci. Vedi, non esiste solo il bisogno di mettere insieme il pranzo o la cena, ma di avere un riferimento, di sapere che puoi contare su qualcuno
da Avvenie di B. Sartori
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