“Partito dalla Galilea, entrò nella regione di Tiro. Entrato in una casa non voleva che alcuno lo sapesse. Ma non potè restare nascosto” (Marco 7,24).
La casa è il luogo dove c’è qualcuno che ti aspetta (P. Mazzolari). Non sappiamo il volto e il nome del proprietario di quella casa in terra straniera, sappiamo però che attendeva, era teso al futuro, che senza sapere chi sarebbe arrivato ne era già in attesa. neppure il tempo o il bisogno di bussare e, quasi naturalmente, pienamente a suo agio, Gesù, entra. Come se quella casa fosse la sua meta, come se sulla soglia fosse scritto: Vieni, ti aspettavo da sempre, entra, la mia casa è la tua casa. Con un cuore così, ogni incontro si trasforma in evento. Gesù abita più volentieri il santuario laico del quotidiano che non quello religioso di Gerusalemme.
Al tempio preferisce la casa, perché in essa può entrare con il volto umile del pellegrino, come colui che non si impone ma che dipende, e sono gli altri a dettare l’agenda con la loro fame, il loro dolore, il loro bisogno. Entra per annunciare un “Dio umano” un Signore senza paludamenti sacri ma che indossa il grembiule della donna tutta presa nelle faccende o la tunica rimboccata del pescatore. Vuole stare là dove l’uomo e la donna sono più se stessi, dove si ama, si genera, si nutre, si cresce, ci si riconcilia e benedice, dove si piange e ci si saluta per l’ultima volta, dove i figli fioriscono in grazia, dove si posa l’ala severa della malattia, o l’angoscia del lavoro mai trovato e già perduto.
Gesù non è venuto nel mondo per insegnarci nuove liturgie, ma per trasmetterci l’arte di vivere e di amare, di liberare e custodire tutto ciò che ci fa più umani, più somiglianti alla divina origine. Nella casa di Tiro approda un altro ospite inatteso, una donna sirofenicia, la cui figlia è malata. In questa casa lontana, in una terra straniera, per opera di una donna di altra cultura e di altre religione, avviene qualcosa di straordinario: la “conversione di Gesù”, la donna prega il maestro di Galilea per la sua piccola. Alle risposte brusche di Gesù, al suo atteggiamento prima ruvido e poi gelido: “Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”, lei non si arrende e invece di ritirarsi ha una risposta geniale: “Anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Fai una briciola di miracolo, per noi, i cagnolini del mondo! E accade proprio in una casa, con immagini di casa (tavola, figli, cagnolini), che Gesù intuisce che tutte le case dei figli di Dio sono uguali, che non ci sono “uomini e cani, figli e cagnolini”, e che lui non è venuto per le pecore di Israele, ma per essere pastore di tutto il dolore del mondo. Gesù, con le radici ben piantate nel focolare domestico di Israele, ora da una casa straniera spalanca le finestre sui grandi venti del mondo e della storia: Per questa tua parola, va’, la tua bambina è guarita.
Nel passo parallelo di Matteo 15,28 la reazione di Gesù è ancora più clamorosa: “Donna, grande è la tua fede!”. Poco importa se quella donna, pagana, prega Baal o Astarte e non il Dio biblico, la grande fede della donna sta nel credere con tutta se stessa che Dio è più attento alla vita e al dolore dei suoi figli che non alla fede che professano, che mette la loro felicità prima della loro fedeltà a Lui. La donna pagana crede in un Dio per il quale i figli di Israele, di Gaza o di Tiro sono tutti abbracciabili, perché prima viene la persona e poi la fede. Gesù entra e si ferma a lungo nella casa di Tiro tanto che la voce si sparge per la regione. Lo fa perché nella casa prende forma l’atto umano del credere, il fidarsi e l’affidarsi agli altri, in relazione buone che sono la premessa, la matrice dell’atto di fede religioso. Forse oggi la fede in Dio è in crisi perché è in crisi nelle case l’atto umano del credere.
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