Giu 012019
 

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Come si trasmette il cuore semplice del Vangelo? Anche se “trasmettere” non è il verbo più adeguato, perché la fede non si trasmette, alla fede si genera, introducendo in un mondo che si riempie di volti e di sorrisi, “un di più” di vita. Si tratta di sussurrare il Vangelo, come una melodia che va da cuore a cuore. L’ultimo mio maestro di fede, anzi “piccolo padre” nella fede, è stato un bambino nella mia chiesa di San Carlo al Corso, in Milano. Era entrato con la nonna, avrà avuto 5 anni. La nonna è andata ad accendere una candela, il bambino girava col naso all’aria. Dopo un po’ si ferma davanti al grande crocifisso del ‘400; mi si avvicina, mi tira per la manica, e mi fa: “Chi è quello lì?”. Mi ha spiazzato. Quella domanda, improvvisa e assoluta, mi si è piantata nella memoria. Cadevano a terra tutte le risposte dei catechismi e del Credo.

A un bimbo che non ha mai sentito parlare di Dio (mi confermava poi la nonna che i genitori avevano escluso la formazione religiosa, per non  ….. condizionarlo: “Sceglierà lui da grande…”) non puoi fornire risposte preconfezionate. Ho sentito che la domanda  di quel bambino toccava il cuore della mia fede. Ho percepito che Dio ci educa alla fede attraverso domande, più che con risposte o affermazioni. Le domande, così umane, parole di bambini, le nostre prime parole, sono la bocca assettata e affamata attraverso la quale le nostre vite esprimono desideri, respirano, mangiano, baciano. Ho chiuso mentalmente tutti i libri e ho aperto la mia vita, mi è sembrato l’unico modo per tentare di rispondere davvero. Mi sono abbassato all’altezza degli occhi del bambino, e gli ho parlato: “Sai chi è quello lì? E’ Gesù. Uno che ha fatto felice il mio cuore. E tante volte”. A quel punto non mi interessava più l’effetto delle mie parole sul piccolo, ma ero contento io di averle pronunciate, perché celebravano, cantavano la mia fede. Vedo tanti libri con titoli importanti: il Gesù storico, il Cristo della fede, Gesù ebreo marginale… che però non rispondono al vero problema: cosa c’entra quel Nazareno con la mia vita? Solo io posso dare la risposta. E questa deve avere dentro l’aggettivo “mio”, come ha fatto Tommaso a Pasqua: Mio Signore e mio Dio, mio come il respiro e, senza, non vivrei./ Mio come il cuore e, senza, non sarei. In un recente viaggio in Mongolia, ho imparato dai missionari, da poco giunti su quella frontiera d’Oriente, uno stile di missione riassunto in una felice formula: “sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia”. Il mormorio persuasivo del Vangelo è sempre intonato su una doppia nota: la carità e la gioia. Lo esprime bene una sorridente poesia del sacerdote polacco Jan Twardowski: Non sono venuto a convertirla, signore, / del resto tutte le prediche sagge mi sono uscite di mente. /  Da tempo ormai sono spoglio di splendore / come un eroe al rallentatore. ……. / Non mi farò bello come un germano in ottobre, / non detterò le lacrime, che ammettono ogni colpa / non le verserò all’orecchio la teologia col cucchiaino. / Mi siederò soltanto accanto a lei / e le confiderò il mio segreto: / che io, un sacerdote, / credo a Dio come un bambino (Chiarimento). Twardowski smonta con il sorriso la fede troppa sicura di sé, che ha tutte le risposte, che impugna la verità come una clava. Dice che “Dio ha inventato l’umorismo per salvare la tenerezza”. E ha inventato il sussurro per salvare l’ascolto. Quello del cuore. Che non ama gli squilli di tromba, ma si lascia coinvolgere da una “fede sottovoce” (Angelo Casati). Dalla fede come una virtù bambina, timida e scalza, senza effetti speciali. Guidata per mano da quella “tenerezza combattiva”, che è la nota distintiva del vangelo di Maria, il Magnificat,  e di Francesco.

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