Essere cristiani, evangelicamente parlando, significa vivere la missione con passione, a fianco degli ultimi. La posta in gioco è alta, se si considerano gli effetti devastanti dell’attuale congiuntura. Assistiamo allo sconquasso valoriale derivane da una concezione fortemente materialistica dell’esistenza umana e alle derive di certi fondamentalismi che s’impongono con violenza sul palcoscenico della Storia. In questa baraonda, in cui è sempre più difficile cogliere la linea di demarcazione tra Bene e Male, si avverte l’esigenza di un nuovo umanesimo, nella consapevolezza che, come ci hanno insegnato i padri conciliari, “solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” (Gaudium et spes 22).
Questo significa, concretamente, che la misura di questa umanità dolente del Terzo Millennio rimane, per ogni credente, Gesù di Nazareth, morto e risorto.
Ma com’è possibile rendere intelligibile la Buona Notizia quando molti dei nostri fedeli, soprattutto nelle Chiese di antica tradizione, procedono stancamente? Papa Francesco, a questo proposito, ci rammenta che la missione non può essere intesa come occupazione di spazi, in modo da sottomettere gli altri alle nostre convinzioni, riducendo la fede a un compendio di prescrizioni. Si tratta piuttosto di vivere il Vangelo andando con speditezza nelle periferie del mondo e manifestando una chiara predilezione per i poveri. E’ sufficiente leggere l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium per comprendere la loro centralità dal punto di vista missionario (186-192), un’istanza sulla quale la comunità cristiana è chiamata a interrogarsi.
“Come si può affermare di amare Dio che non si vede se non lo si riconoscere nel fratello in difficoltà che ci passa accanto?”, si chiede papa Francesco. E ancora: “Rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto”. Il Papa, inoltre, sottolinea con forza che l’aiuto ai poveri “non è una missione riservata ad alcuni”, tutti devono “collaborare per risolvere le cause strutturali della povertà” e tutti devono anche compiere “i gesti più semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie concrete che incontriamo”. Questo ricordando che “la funzione sociale della proprietà (…) e che il possesso dei beni si giustifica per custodirli ed accrescerli perché meglio servano al bene comune”. Come diceva don Tonino Bello, grande vescovo scomparso nel 1993: “Vedete, noi come credenti ma anche come non-credenti, non abbiamo più i segni del potere”. Nel senso che se noi potessimo davvero risolvere tutti i problemi dei disoccupati, dei drogati, dei migranti, i problemi di tutta questa povera gente, allora, sì, avremmo i “segni del potere” sulle spalle. “Però c’è rimasto – diceva sempre don Tonino – il potere dei segni, il potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce della società contemporanea, collocare dei segni vedendo i quali la gente deve capire verso quali traguardi stiamo andando e se non è il caso di operare qualche inversione di marcia”. Ecco attuale il celebre detto del poeta messicano Salvador Dìaz Miròn: “Sappiatelo, sovrani e vassalli, eminenze e mendicanti: nessuno avrà diritto al superfluo, finchè uno solo mancherà del necessario.”
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