(Padre Ermes Ronchi) – “Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,51-52). Luca racconta due pellegrinaggi, quello verso il tempio e quello verso la casa, verso i volti e le persone, dove si apprende l’arte del vivere. La casa è il luogo dove ci si fida gli uni degli altri; questa fede-fiducia reciproca è terreno fertile per il nascere della fede in Dio. Nella casa Gesù sperimenta la vita come un bene, come una cosa buona alla quale dedicarsi: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Come un bambino anche lui fa l’esperienza che essere amati, dare e ricevere amore, è la felicità di questa vita. Casa di Nazaret, dove si parla al cuore: l’amore sotto ogni silenzio, la speranza sotto ogni paura, la poesia dei gesti quotidiani, gli occhi semplici sulle cose, l’istante che trascolora nell’eterno e l’eterno che germoglia nell’istante.
In quella casa ha imparato la parola. Ogni bambino che nasce, prima ancora che cominci a capire, è nutrito di parole, colmato di parole. Da subito i genitori gli parlano, lo introducono nella vita e nell’amore con braccia di parole. Gesù diventa umano in questo mare di parole buone. E le porterà con sé lungo le strade di Galilea. Stando accanto a Giuseppe, gli è sempre più chiaro che il nome di Dio è abba, come i bambini in casa chiamano il padre, nel dialetto del cuore non nella lingua degli scribi, e che vivere è amare. In quella dimora vive l’esperienza positiva di rapporti familiari buoni, al punto da scegliere i nomi di casa per indicare il suo sogno di umanità nuova e da volerne estendere la grazia e la forza a livello di massa: “e voi siete tutti fratelli”. La “comunità “ diventa non tanto il sogno atteso, ma una sfida: quella di costruire una comunione che accolga le diversità e si lasci fecondare da esse. Lo stare a mensa insieme, nutrendosi dello stesso pane, “pane nostro”, pane santo, pane per me e per mio fratello, è entrato in Gesù come un’autentica esperienza religiosa, e ne farà una delle punte avanzate del suo messaggio messianico. Gesù abita la vita e già nascono parabole. Nei trent’anni di Nazaret, Gesù impara la cura amorosa per ogni più piccola cosa di coloro che ami, lì comprende l’infinita cura di Dio per l’infinitamente piccolo (“nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto”, Lc 21,18), l’attenzione all’altro per cui nulla è insignificante di ciò che appartiene alla persona amata. Il Vangelo già accade in quella casa.
Trent’anni. Non solo la gioia e il trasporto, ma anche lo scorrere quieto e perseverante della vita quotidiana, quando la meraviglia dell’inizio passa attraverso il prezzo della fedeltà. La casa di Nazaret è il luogo della fedeltà. Maria ha ascoltato un angelo una sola volta e tutto il resto della sua vita è stato un viaggio senza più visioni, come per noi. Del resto, in tutta la Bibbia la fede dell’uomo si declina come fedeltà. La speranza si declina come perseveranza, attiva fedeltà. Maria per la maggior parte della sua via, per tutti i trent’anni di Nazaret, privilegia il rapporto con l’umanità di Gesù, e non con la sua predicazione. Maria è in relazione con la carne di cristo più che con le sue idee. Solo la vita di Gesù è l’interpretazione esatta, affidabile, della sua dottrina, la rivelazione di Dio è una vita di uomo, che ha imparato a donarsi, fino all’estremo.
La casa di Nazaret ci accompagna dentro quel substrato primario che dà senso e prospettiva alla dottrina: la carne di Gesù che è la casa del Logos, il suo corpo. Ogni uomo è un corpo che racconta un cuore, la sua radice. Il corpo è il luogo dove è detto il cuore. Così, nella casa dei trent’anni, dai gesti di Gesù impari il cuore di Dio. Nel quotidiano si abbrevia l’infinito.
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