Feb 272016
 

donmarioalbertiniLa parabola del Dio paziente e capace di attenderci, che il vangelo ci propone, può̀ essere rassicurante, ma è tutt’altro che deresponsabilizzante. La parabola ci parla certamente più̀ di Dio che dell’uomo, della misericordia più̀ che del giudizio e della condanna. E tuttavia colui che è presentato come «lento all’ira e grande nell’amore» non manca di interpellare l’uomo nella sua esistenza: richiede a ciascuno di trovare buone idee e una via per scampare alla morte. Anche nella prima lettura Dio non si presenta come giudice, ma come liberatore: è sperimentato da Mosè come colui che entra nella vita per guidare e salvare, per riscattare alla libertà. Allo stesso modo la seconda lettura ci conferma il primato dell’iniziativa divina che si manifesta nella nostra vita, ma non manca di metterci in guardia e di sollecitare la nostra responsabilità̀: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere!».

Frutti o foglie? realtà di bene, o solo apparenza, superficialità? A riscontrarlo non è un giudice qualsiasi, ma è il Signore stesso, che viene a noi, e desidera, spera che noi gli sappiamo presentare qualcosa di buono nella nostra vita. Sarebbe triste che vi trovasse solo foglie, secche o verdeggianti non importa, ma solo foglie.

Ma la parabola che abbiamo ascoltato nella seconda metà della pagina evangelica, la parabola dell’agricoltore che si dà da fare perché la pianta da tempo infruttifera finalmente produca qualcosa, è una infusione di fiducia per noi. Sta a significare la pazienza di Dio nei nostri confronti: egli sa aspettare, e soprattutto non lascia niente di intentato perché la nostra vita non sia inutile, infruttuosa. Se pensiamo a noi stessi e al nostro passato, ci rendiamo conto che quella pazienza di Dio anche noi l’abbiamo sperimentata.

Accogliamo questo invito alla fiducia nel Signore, il quale a sua volta attende fiducioso che portiamo qualche frutto di bontà. Ma per questo: convertiamoci! L’esortazione di Gesù è sempre attuale, ed è la parola d’ordine di questo periodo di quaresima: pentirsi del male fatto, impegnarsi nel bene. La conversione è preludio al perdono di Dio, e della sua pazienza non dobbiamo abusare.

La liturgia di oggi propone come prima lettura una delle pagine più elevate della sacra Scrittura (e non solo): a Mosè, che gli chiede il nome, Dio rivela chi è.

Anzitutto ricorda quanto ha compiuto già in passato: “Io sono il Dio di Abramo, d’Isacco, di Giacobbe”, cioè degli antenati del popolo d’Israele che lui ha protetto e guidato. E’ come se dicesse agli israeliti: conoscete quello che già ho fatto per voi, e allora abbiate fiducia in quello che farò. La definizione “Io sono Colui che sono” va intesa così: io sono colui che è presente nella vostra storia. Non dà quindi una definizione teorica di se stesso, ma invita a riconoscerlo in quello che compie. In un’altra occasione, sempre nella storia sacra, dirà: io sono l’eccomi, cioè, sono il padrone degli avvenimenti, l’amore onnipotente, il salvatore attento.

E allora anche il nostro desiderio di conoscere chi è Dio può trovare risposta nel riconoscerlo presente nella nostra vita. E’ lui che ci ha dato l’esistenza e ce la conserva, è lui che ci mette di fronte agli altri e a tutto il creato, è lui che ci dona la sua vita con la Parola e con i sacramenti, è lui che si aspetta.che portiamo frutti di bene.

Insomma Dio non è un qualcosa di vago e lontano, è Qualcuno con noi. La sua pazienza, che abbiamo capita dalla parabola del vangelo, ne è un segno. E se nell’antico Testamento egli veniva indicato come il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, noi lo identifichiamo come il Dio di Gesù Cristo, colui che Gesù chiamava suo Padre, dando a noi il diritto di invocarlo “Padre nostro” perché ci ha resi partecipi della sua realtà filiale. In ultima analisi, il frutto che il Signore vuole trovare in noi è che con lui ci comportiamo da figli.

(Il commento di don Mario Albertini)

Sorry, the comment form is closed at this time.