Il Vangelo è un racconto dove si intrecciano volti e storie, la potenza e la fragilità degli incontri. C’è un luogo che Gesù predilige per i suoi incontri: la tavola. Vi si asside insieme alle persone più diverse, con puri e impuri, con amici e perfino con avversari. Ed è in quegli incontri nelle case, attorno al cibo e al vino, che Gesù propone sogni di futuro, immagini di Dio e di un mondo nuovo più forti e numerosi che in qualsiasi altro luogo. Apri il Vangelo e ti accorgi che la tavola non è per l’alimentazione ma per l’evangelizzazione. Secondo qualche autore, oltre il 50 % del vangelo di Luca si svolge attorno alla tavola o presuppone la tavola. Che non è preparata per semplicemente alimentarsi, ma perché luogo privilegiato di incontri. Di incontri che hanno il sapore buono dell’amicizia.
Seduti alla stessa tavola noi ci nutriamo di cibo, ma soprattutto ci alimentiamo gli uni degli altri, della presenza cordiale degli altri. La tavola comune è una invenzione antropologica fondamentale che ha come obiettivo l’incontro, non la nutrizione, il dare spazio a quegli incontri che costruiscono la nostra identità. Tutti abbiamo bisogno di essere curati e custoditi dall’amicizia delle creature. L’amicizia di Gesù, che accoglie tutti prima della loro conversione; che non cerca seguaci ma gente che stia con lui. Forse qualcuno si convertirà, forse nessuno. Ma Gesù non fa calcoli di questo genere. Il suo sguardo non si posa sulla dignità o meno delle persone, sulla loro fedina penale o sulla purezza rituale. Scavalca le norme e le clausole e raggiunge la creatura nel suo bisogno e nella sua povertà. Non si avvicina alle persone con una griglia di classificazioni morali, ma offre un’amicizia che abbraccia l’imperfezione; mostra il suo bisogno nativo, divino, di abbracciare la nostra imperfezione. L’amore è esigente, bruciante; l’amicizia è benevola e indulgente. E poter tornare a parlare di amicizia con Dio ha un vantaggio enorme. Amore è passione di unirsi, irruenza di fusione. Amicizia, invece, cammina per la via umile della gratuità, abbraccia l’imperfezione, prende tempo, ammette un rapporto con Dio non perfetto. La fede è così: una relazione con il Signore, reale e imperfetta. Una delle particolarità del vangelo di Luca è di raccontarci ben tre incontri di Gesù ospite alla tavola dei farisei: “Uno dei farisei lo invitò a mangiare con lui”(7.36); “Mentre stava parlando un fariseo lo invitò a pranzo”(11,37); “Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare” (14,1). Tutto parte da un invito, da un gesto di rispetto, di attenzione, forse di curiosità nei confronti del giovane rabbì. Ma ogni volta Gesù si rivelerà un ospite scomodo. Che sovverte le logiche e le regole di accesso a quei pasti: sarà l’entrata in scena della prostituta con il vaso di profumo e Gesù che la addita al fariseo come esempio di incontro vero; sarà la polemica sul formalismo vuoto delle abluzioni rituali; oppure sovvertendo le regole per la selezione degli invitati quando ad un banchetto invita ciechi, storpi, zoppi, i più improbabili ospiti. Di più: andate lungo le siepi e costringeteli a entrare, spingete dentro la feccia, proprio coloro che il buon ebreo aveva l’obbligo di spingere fuori,quelli che non sono pronti, non sono degni. Ma l’amicizia, immeritata sempre, agisce in modo preveniente, anticipa la conversione. Il tempo proprio dell’amicizia è l’anticipo. Qualcuno gli darà ascolto, qualcuno si convertirà, molti altri no. Ma lui intanto è lì, in modo amico e libero e gratuito, mostrando che Dio viene nel segno dell’incontro amicale, non dell’ingiunzione o del giudizio. Ed ecco che, a tavola, l’amicizia si trasforma in un dispositivo fondamentale di rivelazione cristologica.
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