Ripresa delle attività dopo la pausa estiva. A scuola i nostri ragazzi si contano: qualcuno è rimasto indietro causa bocciatura, qualche volto sconosciuto si affaccia timidamente tra i banchi. Al lavoro ritroviamo i colleghi. I nostri sensi all’erta cercano di captare nell’infosfera le news che ci faranno compagnia in questi giorni, accarezzando il nostro bisogno di rassicurazioni o sconvolgendoci. Insomma, giusto per capire di che morte moriremo questa volta…
Qualche novità c’è anche in parrocchia. Tornati dai monti o dal mare, avremo scoperto che il nostro parroco non c’è più. Anzi, che non c’è più proprio nessun parroco, che nessun altro sacerdote verrà a sostituirlo. Che dopo tanti anni la nostra parrocchia, proprio la nostra parrocchia, resterà senza prete. E la canonica andrà ad aumentare il numero delle canoniche tristemente chiuse accanto alle nostre chiese. Già il vescovo ci aveva tolto il cappellano, o il curato come in alcune parti ancora si chiama, e la madre provinciale aveva tirato via le suore dell’asilo! Ma che adesso avremo anche il parroco in comproprietà con altri!
La nostra parrocchia, infatti, sarà nel frattempo stata unita ufficialmente ad altre parrocchie viciniori, con formule linguistiche arzigogolate che sembrano escogitate apposta per indorare, inutilmente, la pillola: unità pastorali, comunità di parrocchie o altro.
La colpa di tutto ciò è dei preti che non ci sono più e dei giovani che non vanno più preti. Davanti agli occhi ci scorre una visione apocalittica e funerea: l’altare vuoto! Vero. Verissimo. Le vocazioni al sacerdozio ministeriale o alla vita religiosa sono in calo. Magari non sempre per cattiva volontà, ma anche solo perchè è in calo il numero stesso di giovani che potrebbero farsi frati o suore, visto che l’Italia può vantarsi di essere uno dei Paesi europei in cui nascono in assoluto meno bambini. Ma non è nemmeno questo l’accidente più serio e grave. Il punto è che quando noi siamo all’altare per celebrare l’eucaristia, quello che spesso vediamo giù è una chiesa… vuota. O, tutt’al più, fino quasi in fondo. Dove molti di voi stanno, preoccupati di presidiare la porta d’entrata: si sa mai! Ci può capitare così di annunciare la gioia e la bellezza del Vangelo ai banchi vuoti o quasi. Che inermi, silenziosi e attenti, ascoltano senza perdersi una parola né distrarsi. O di predicare la conversione ai santi affrescati che ricoprono le pareti, che ti guardano colorati e animati, ma queste cose già le sanno e molto meglio di quanto non le sappiamo noi. Niente paura. E’ una soddisfazione anche questa: san Francesco non ha predicato agli uccelli e sant’Antonio pure ai pesci?.
Ma allora il punto non è che sia vuoto l’altare piuttosto che la navata. Forse sono “vuote” le nostre comunità. Perché forse il nostro cuore è vuoto di Dio. E non è nemmeno un vuoto a rendere: ce lo teniamo e basta. Ci siamo arresi tutti a vivere nel post-cristianesimo, in un cristianesimo dato ormai per defunto. Quando invece noi, come ogni generazione di cristiani apparsa sulla Terra, pellegriniamo sempre nel pre-cristianesimo: tempo di attesa e promessa, anelito all’incontro con Dio, in cammino verso lui, già e non ancora dei nostri sogni e delle nostre realizzazioni, esperienza da costruire giorno per giorno piuttosto che prefabbricato dello spirito consegnatoci bell’e arredato e full optional.
La nostra fede, di tutti noi ugualmente parte della grande famiglia di Dio su o giù dall’altare, dovrà ancora come sempre nutrirsi di speranza, la “piccola” virtù, come la chiamava Charles Péguy: da queste parti corre il confine tra essere missionari o … dimissionari.
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