Ago 052017
 

tribunale-giustiziaIn tema di crisi, c’è sempre il rischio della rassegnazione che trova nel cinismo una sorta di sfogo. Pare proprio avesse ragione Trasimaco quando affermava che “la giustizia è l’utile del più forte”. Questa citazione del filosofo greco, in effetti, sembra essere di grande attualità se guardiamo al panorama italiano, e non solo. Per evitare, però, facili o ambigue estrapolazioni, proviamo a leggere quello che effettivamente dice Trasimaco ne La Repubblica di Platone: “Ciascun governo istituisce leggi per il proprio utile; la democrazia fa leggi democratiche, la tirannide leggi tiranniche e allo stesso modo gli altri governi. E una volta che hanno fatto le leggi, proclamano che il giusto per i governati è ciò che è invece il loro proprio utile, e chi se ne allontana lo puniscono come trasgressore della legge ed ingiusto”.

Sempre secondo Trasimaco “gli dei non badano alle cose umane, altrimenti non trascurerebbero il massimo dei beni tra gli uomini: la giustizia; vediamo infatti che gli uomini non l’applicano mai”. Una cosa è certa: se ci atteniamo a quanto leggiamo ne La Repubblica, Trasimaco, pur avendo una chiara e realistica visione di come vanno davvero le cose nel mondo civile, non sembra in grado di trarne conseguenze politiche. L’unico modo di salvarsi dalla giustizia delle città greche, per lui, era l’ingiusto agire individuale di chi è abile a violare le leggi senza farsi scoprire. Cosa c’entra con noi Trasimaco, vissuto venticinque secoli fa? In fondo, a pensarci bene, il suo pensiero è la perfetta sintesi del modo di ragionare di molti cittadini, o presunti tali, nella nostra società. E’ evidente che Trasimaco negava ogni utopia, sostenendo implicitamente che per sopravvivere bisogna essere forti con i deboli, mostrandosi però deboli e servili con i “più forti” di turno. Personalmente mi rifiuto di credergli. Il vero problema non è rappresentato dalla giustizia, ma dai legislatori che spesso, purtroppo, guardano solo ai loro interessi personali. Ai tempi di Trasimaco, Atene – che i libri scolastici ci additano come la culla della democrazia occidentale – contava 500mila abitanti, 300 mila dei quali erano schiavi. Oggi, in fondo, è anche peggio. Secondo il recente rapporto di Oxfam, appena sessantadue persone al mondo detengono la ricchezza di oltre metà della popolazione del pianeta. Se da una parte è vero che la giustizia (cioè cos’è giusto) viene stabilita dal potere di turno (il quale, spesso, per tenersi a galla “gratta la pancia” al suo elettorato), dall’altra servono politici che abbiano affezione alla polis (cioè alla città) e al bene comune. Una sfida culturale, azzardo dell’utopia, per quelle anime che vogliono continuare a credere, come cittadinanza attiva, in un mondo migliore. La responsabilità morale e l’esigenza della virtù riguardano ogni persona consapevole della possibilità di influire sulla realtà per migliorarla, poiché non esistono deroghe che ci sollevano dalle nostre responsabilità. Don Enrico Chiavacci, uno dei grandi teologi morali del Novecento, affermava che “l’annuncio cristiano, con la relativa elaborazione teologica, non può limitarsi all’invito alla carità, alla fraternità, alla condivisione; deve capire qual è oggi l’avversario in tutte le sue palesi e più spesso subdole manifestazioni”. La parola chiave, pertanto, è una sola: moralità. Ecco allora che l’aspetto più ambiguo e sospetto di chi oggi vorrebbe tirare i remi in barca, sta proprio nella sua presunta e apparente neutralità, nel suo ricondursi al semplice calcolo della convenienza. Per dirla con le parole del sociologo Zygmunt Bauman “essere morali significa non sentirsi mai abbastanza buoni”.

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