Il cristianesimo nasce nella casa, non al tempio. L’angelo Gabriele per primo sconfina dal recinto del tempio, fino alla casa di una ragazza di paese, a Nazaret. Sconfina dal sacerdozio e dall’apparato solenne dei riti liturgici, per approdare alla normalità di una ragazza qualunque, alla leggerezza di un luogo qualunque. Al tempio Dio preferisce la casa. Come in quell’inno che dà “Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio” /Es 23,17), con l’Incarnazione questa legge è capovolta, è lui che si mette in pellegrinaggio verso l’uomo, nel santuario del quotidiano. Un Dio cui piace sconfinare, pascolare nella terra dell’uomo e non nel solito paradiso. “Piace anche a lui nutrirsi di nutrimenti terrestri” (David Maria Turoldo) e scorrere nella vita, nel torrente della vita, entrare nelle case, guardare negli occhi, tessere fili di relazioni.
Proviamo a osservare la vita di Gesù da un punto di vista insolito: seguiamolo mentre entra nelle case e ne esce, varca porte amiche o sconosciute; sostiamo con lui a tavola, saliamo nella camera del malato, sediamo in cucina, tutti luoghi dove i suoi gesti diventano umanissimi e le sue parole famigliari e domestiche. Ritroviamo un Gesù delle case, è urgente. Nel nostro cristianesimo il Dio della religione e il Dio della vita, il Dio del culto e quello del quotidiano si sono separati. Per farli incontrare di nuovo, la strada più evangelica è partire dal Dio della vita, riascoltare da lui la parabola della casa. La casa è il simbolo che tutto il tempo è abitato da Dio, non solo quello liturgico; che al tempio Dio preferisce il tempo, la storia. Se apriamo il vangelo ci accorgiamo che Gesù frequentava la sinagoga e il tempio, ma con lui veniamo immersi in un racconto di cammini, di strade, di sentieri. Ci sono deserti e città, campi, alberi, viti, fiume e lago e poi soprattutto le case, come per ogni uomo e ogni donna (per 40 volte è riferita la sua presenza in una casa): nel giorno del pianto e in quello della danza, nel lutto e nella festa, per il riposo e per l’amicizia, per il profumo e per il pane, per il miracolo e per l’annuncio. Emblematica è la parabola della casa di Zaccheo (Lc, 19,1-10). “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc, 19,5). “Devo fermarmi”. “Devo”: e senti che preme una necessità, un bisogno, un’urgenza. In quel verbo risuona l’eco del desiderio di Dio. “Fermarmi”, non solo passare e proseguire. E il tempo rallenta, acquista profondità: la casa di Zaccheo non è una tappa, ma un traguardo, per Gesù che trasforma ogni incontro in una meta, in un “fare casa” insieme. “A casa tua”. Là dove ti senti più libero e a tuo agio, dove sei te stesso. Dove custodisci i tuoi amori, dove sei più vero. Il maestro dice: io ho bisogno di entrare nel tuo mondo; non voglio portare te nel mio mondo, come un qualsiasi predicatore fondamentalista in cerca di adepti, voglio entrare nel tuo mondo, parlare parole vere, nel tuo linguaggio piano e semplice. Gesù è l’amico della vita. Ma poi non basta. Non solo a casa tua, ma alla tua tavola. La tavola che è il luogo dell’amicizia, dove si fa e si rifà la vita, dove ci si nutre gli uni degli altri, dove l’amicizia si rallegra di sguardi e intese, la condivisione stabilisce legami, unisce i commensali tra loro. Quelle tavole attorno alle quali Gesù riunisce i peccatori sono lo specchio e la frontiera avanzata del suo programma messianico.
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