Gen 012017
 

Mentre leggiamo che, nella città irachena di Mosul, le milizie del califfato jihadista che cercano di mantenere l’occupazione dell’area sono composte, in parte consistente, da occidentali, nella Francia, Belgio e Germania scosse dai recenti e terribili attentati si è aperta un’interessante riflessione sulle motivazioni che spingono giovani alcuni, ma non tutti, di origini islamiche, a simpatizzare per i talebani, fino a far parte del loro esercito e commettere anche attentati. Ragazzi e ragazze europei in numero preoccupante ormai sono reclutati dall’Isis, in genere tramite internet, ma con motivazioni diverse: per i ragazzi la propaganda insiste sulla violenza, che li affascina. Le giovani donne, invece, sono attratte dall’idea di salvare i bambini bombardati in Siria; alcune, invece, lo sono dall’idea di sposare un arabo bello come un principe, ammirato in fotografia.  Motivazioni, come si vede, che poco hanno a che fare con la religione, ma piuttosto sembrano la risposta a una scontentezza diffusa, a un disagio verso la loro vita, che percepiscono come priva di senso.

Interviste, libri, film affrontano questo problema, che si sta rivelando originato da una crisi culturale interna piuttosto che da un conflitto religioso. Un film, Le ciel attendra,  racconta la storia di due ragazze attratte, in un periodo di vulnerabilità, dal mondo islamista. Una delle due giovani viene coinvolta in un momento di crisi, perché abbandonata dal fidanzato, mentre sta cercando di trovare  su internet qualche consolazione. Nel film è ben raccontato il ruolo delle madri che, legate a un’associazione che riunisce i genitori dei ragazzi affiliati dall’Isis, lottano per riportare a casa le figlie tentando di  ricondurle alla ragione. Non è tanto questione di islam, quindi. L’adescamento prende piuttosto la forma di soccorso via internet a giovani confusi, in stato di grave ansietà, che non si fidano più di nessuno. I propagandisti offrono loro la promessa di un mondo di fratelli e sorelle, dove sono ben chiari amici e nemici e sembra facile orientarsi e costruirsi un’identità rispettata. Se si esaminano con attenzione le vite degli attentatori, scopriamo infatti che rivelano abissi di angoscia, difficoltà a vivere, disagi psichici anche gravi. A tal punto che, a ben vedere, il califfato rivendicato da Daesh non appare solo come un’officina di guerra e di terrore, ma anche come una macchina che serve a trasformare in eroi delle persone devastate da accessi di rabbia, disperate. Ci sono studiosi del fenomeno che cercano di capire cosa accada nelle menti di questi giovani, partendo dalla constatazione che, fallito il progetto  comunista, coloro che si sentono emarginati e sconfitti non avvertono oggi di avere più sbocchi politici. Essi scelgono, allora, sbocchi religiosi, che offrono una prospettiva morale in un mondo in cui i poteri sono corrotti, nel quale si fa mercato della vita e i poveri vengono trattati senza umanità. Ma quello che determina la svolta terrorista è soprattutto, l’assenza di ogni speranza collettiva, la guerra terrorista diventa così l’unico modo possibile di rivolta, una guerra senza fine che non prevede strategia di pace. I giovani che partono per la Siria evocano spesso il disgusto per la nostra società, la volontà di non averci più a che fare. L’Isis propone loro di andare fino al fondo di questa volontà, di uccidere e di morire, unica prospettiva se la speranza non è più di questo mondo. Le conclusioni dovrebbero, allora, indurre ad affrontare il problema alla radice, a riflettere su questa disperazione giovanile, invece di pensare, ad esempio, che è urgente legiferare sul modo di vestirsi delle donne.

di Lucetta Scaraffia

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