Nel Vangelo viene promessa la vera felicità a chi si fa discepolo di Cristo, riconoscendo di appartenere al popolo dei «poveri in spirito», ossia di coloro che aprono il proprio cuore a Dio e a lui si affidano, imparando ad accoglierlo presente nelle vicende umili e quotidiane della loro vita. Questa infatti viene dalla fede autentica realmente trasfigurata e riempita di una gioia che il mondo non può offrire. In questa direzione la prima lettura presenta alla contemplazione dei fedeli visioni che descrivono la destinazione finale di quanti si pongono alla sequela di Cristo, aiutando in tal modo anche noi a interrogarci sulla nostra identità di cristiani e sulla nostra fedeltà soprattutto nei momenti in cui la fede è messa alla prova. La prima lettera di Giovanni, nella seconda lettura, richiama a sua volta l’attenzione sulla realtà dell’essere già ora figli di Dio e sulla certezza di fede di poterlo un giorno «vedere così come egli è». Si può adoperare un’espressione che sembra uno slogan per indicare la nostra situazione di cristiani qui sulla terra, e l’espressione è: già, e non ancora. Già salvati dal Signore Gesù, ma non ancora salvi perché possiamo rinnegare questa salvezza. O come è detto nella seconda lettura: già figli di Dio, ma non è ancora stato rivelato ciò che saremo. Il già, vale a dire il dono misterioso ma reale dell’essere figli di Dio, è l’oggetto della nostra fede, il non ancora, cioè la partecipazione eterna alla gloria e alla gioia di Dio, quello che indichiamo con il termine ‘paradiso’, questo è l’oggetto della nostra speranza.
Ebbene, quando noi ricordiamo un santo, o come oggi li celebriamo tutti, è perché riconosciamo che essi hanno raggiunto quello che per noi non è ancora, cioè la salvezza totale e la visione di Dio. Come dice ancora la seconda lettura: noi lo vedremo così come egli è, i santi già sono in questa meravigliosa realtà E’ anche quello che dice Gesù in quel grandioso programma di vita che sono le beatitudini.
Il mio discepolo, dice il Signore, è una persona mite, puro, di cuore, costruttore di pace, operatore di giustizia, che non è attaccato alle cose, che accetta le prove e la sofferenza per amore mio. Il mio discepolo che vive così, dice il Signore, è già beato, perché così è figlio di Dio, partecipe della vita divina. Ma non ha ancora la pienezza della beatitudine, questa verrà poi: grande è la vostra ricompensa nei cieli. E’ la ricompensa di cui godono i santi. Ma questo programma presentato nelle beatitudini Gesù lo propone a noi, a noi chiede di essere persone di pace, di giustizia, puri di cuore, buoni con gli altri, eccetera. E se ce lo chiede, vuol dire che ha fiducia in noi, in ciascuno di noi. Non che si aspetti cose straordinarie, ma si aspetta che là dove ci porta il nostro dovere – casa, ufficio, scuola, dovunque – là noi viviamo da figli di Dio.
La festa dei santi, e anche la commemorazione dei defunti domani, ci dicono che c’è sì una rottura tra questo mondo e il dopo, ma che c’è pure una continuità: e che tutto ciò che c’è di bello e di buono nella nostra vita, la conoscenza, l’amicizia, l’amore, tutto questo non sarà abolito, ma trasfigurato.
Perché crediamo a questo, noi invochiamo i santi e preghiamo per i nostri cari che ci hanno preceduto. Sono due le feste (anche quella dei morti usiamo chiamarla festa), ma la verità è la stessa:: invochiamo i santi perché già sono entrati nella gloria di Dio e quindi possono intercedere per noi, preghiamo per i nostri cari defunti per contribuire così che in quella gloria vengano presto introdotti, se già non lo sono.
Vorrei dire che gli affreschi che abbelliscono le nostre chiese ci invitano ad avere una certa familiarità con i santi. Una familiarità che già ora possiamo vivere nella preghiera, e che si esprimerà con pienezza quando ci sarà dato di incontrali nel paradiso.
Sorry, the comment form is closed at this time.