Nel Vangelo ci è presentato il contrasto tra la preghiera del fariseo e quella del pubblicano: è un quadro che interpella la nostra immagine di vita “religiosa” e ci pone davanti ad una scelta, quella di intendere la religione come pratica istituzionale esteriore e formale, oppure quella di cercare la salvezza dalla nostra povertà nell’affidarci al Padre. Secondo il vangelo viene giustificato chi si fida di Dio e non chi fonda la propria sicurezza nelle sue opere. La metafora a cui ricorre la prima lettura per descrivere la preghiera dell’umile, un grido che penetra le nubi, mostra quale atteggiamento assicura efficacia al pregare: non l’orgoglio che pretende, ma l’umiltà di chi invoca aiuto, consapevole del proprio limite. Non diversi sono i sentimenti che animano Paolo nella seconda lettura: l’offerta della sua vita, nel servizio alla comunità cristiana, esprime tutta la sua fiducia nel Signore, che solo può liberarlo da ogni male e salvarlo.
“Io, Signore, non sono come gli altri…” – Presentarsi così a Nostro Signore, dirgli: lo vedi che sono bravo, più bravo degli altri, non è certo una bella preghiera. E noi, un pensiero del genere, di sentirci migliori in paragone ad altri, non lo abbiamo mai avuto? Con la sua parabola Geù ce ne mette in guardia.
Nella parabola figurano tre personaggi: un fariseo, un pubblicano, e Dio.
Il fariseo è un che ci tiene a essere stimato, e per questo è molto attento a osservare le norme e ad apparire onesto; il pubblicano invece è considerato un trasgressore delle norme religiose e morali, e lui è consapevole di non essere onesto.
Se li avessimo qui davanti, ci verrebbe da dire che il primo è un uomo per bene, e che il secondo è soltanto un poveraccio. Ma essi non sono davanti a noi, sono davanti a Dio – e allora cosa succede? come si comporta Dio verso di loro? Il giudizio è completamente capovolto e infatti il peccatore torna a casa perdonato, reso giusto; l’altro invece, quello che sembrava una brava persona, no. Perché?
Tutto dipende da come si sono messi davanti a Dio. Il peccatore gli si presenta con sincerità, è consapevole della sua situazione morale, se ne pente, e con umiltà chiede perdono. Cosa può fare Dio, che è bontà misericordiosa, se non perdonarlo?
L’altro invece sembra rivolgersi a Dio, ma in realtà è come se fosse davanti allo specchio a contemplare se stesso, ad autocompiacersi e a dirsi: vedi quanto sono bravo! Non c’è verità in lui, c’è vanità, egoismo, orgoglio. C’è presunzione. E l’evangelista nota che Gesù espone questa parabola proprio “per quelli che presumono di essere giusti”, e quindi non chiedono perdono. E Dio non dà, non può dare un perdono non richiesto.
Allora la nostra preghiera deve essere come la preghiera del pubblicano, cioè umile. Con immagine poetica molto espressiva nella prima lettura è detto: “la preghiera dell’umile penetra le nubi”, va oltre le nubi, e Dio l’ascolta. L’abbiamo affermato anche nel salmo responsoriale: “Giunge al tuo volto, Signore, il grido del povero”.
Chi invece si ritiene già abbastanza bravo e buono, anche se pronuncia delle preghiere, in realtà non prega.
Ripensando alla parabola, domandiamoci: io come mi metto davanti a Dio, quando prego? Come mi metto ora, in questa preghiera che è la Messa? Siamo stati sinceri quando, iniziando la Messa, abbiamo ripetuto “Signore, pietà”?
Se siamo stati sinceri, se siamo sinceri ora nel riconoscerci peccatori e nel pentirci, torneremo a casa resi giusti dal perdono e dall’amore di Dio.
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