Al centro del vangelo di oggi sta la preghiera che Gesù consegna ai suoi discepoli: il Padre nostro. Essa rappresenterà la loro “identità”, il modello sul quale costruire ogni dialogo di fede con il Padre: in essa i cristiani chiedono a Dio di realizzare sulla terra il suo regno e si impegnano a non frapporre ostacoli, anzi ad offrire la loro collaborazione. La condivisione del pane e il perdono reciproco ne saranno le manifestazioni concrete. In modo simile il dialogo tra Abramo e Dio, nella prima lettura, evidenzia il ruolo di “mediazione” che la preghiera può assumere: un continuo intercedere, affinché il Padre mostri il suo volto di misericordia. Nello stesso orizzonte si pone la seconda lettura, in cui Paolo riassume il significato della salvezza offerta attraverso Gesù proprio nel perdono dei nostri peccati e nel renderci partecipi della vita divina.
Di che cosa parliamo più volentieri? di quello che più ci sta a cuore. E Gesù, di che cosa parla più volentieri? Gli viene spontaneo parlare con tenerezza del Padre che è nei cieli.
Anche nelle circostanze in cui meno ci si aspetta che lo faccia: vede i fiori dei campi e gli uccelli del cielo, e questo gli ricorda la provvidenza del Padre che veste i fiori e nutre gli uccellini; gli si avvicina un bambino, e lui afferma che il suo angelo custode contempla la gloria del Padre; Pietro con un atto di fede esclama: tu sei il Cristo!, e lui sottolinea la bontà del Padre che glielo ha rivelato.
Tutte le parole e le azioni di Gesù sono l’espressione del suo rapporto con il Padre.
Soprattutto la sua preghiera. Il vangelo ripete diverse volte che Gesù pregava, e lo leggiamo anche all’inizio del brano di oggi.
Ma insegna che il Padre suo è anche il Padre nostro: è Padre perché genera un Figlio che è Gesù, e in lui genera altri figli che siamo noi tutti. Siamo figli nel Figlio. Siamo dentro il mistero della vita divina
Verità da riconoscere e vivere con stupore e con gioia.
Per questo agli apostoli che gli chiedono: insegnaci a pregare, risponde: Quando pregate, dite: Padre!..
Nella sua lingua, l’aramaico, Gesù non diceva “Padre”, bensì “Abbà”, che è l’equivalente del nostro “papà”.
Ma a noi, da dove viene il coraggio di dire la preghiera del Padre Nostro (“osiamo dire”, introduce il celebrante nella Messa)? e davvero siamo convinti che ci stiamo rivolgendo a un Padre? Perché chiamare Dio ‘Padre!’ è impegnarsi a vivere da figli.
Chiamare Dio ‘Padre!’ significa riconoscere che egli è l’amore costitutivo del nostro essere e del nostro agire, che egli ci dà la vita ora e in ogni istante.
Chiamare Dio ‘Padre!’ significa riconoscere in lui la bontà, la tenerezza nei nostri confronti, la sua misericordia.
Chiamare Dio ‘Padre!’ significa affermare e riconoscere la fraternità tra tutti gli uomini.
Ma ci crediamo davvero che Dio è Padre nostro?
L’approfondimento della parola ‘Padre!’ potrebbe continuare, e io vi chiedo scusa di non essere capace di parlarne come si dovrebbe.
Proviamo quest’oggi a recitare per conto nostro la pre-ghiera che Gesù ci ha insegnata, pensando a quello che ogni frase vuol dire alla luce della invocazione iniziale. E se abbiamo il coraggio di dire a Dio con sincerità “Padre!”, ci accorgeremo che tutta la vostra vita avrà un significato più grande, più bello.
Sì. grazie, Signore Gesù, per averci insegnato:
Quando pregate, dite: Padre! – dite Abbà, papà.
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