
CAMMINO
TEOLOGICO
PROGRESSIVO
Riflessioni di D. Mario Albertini e di P. Giovanni M. Travaglia
La teologia più recente è aperta alla riflessione su Dio Padre molto più che in passato, e vi si trovano affermazioni che non molto tempo addietro parevano, ed erano, azzardate, ma che negli scritti di P. Rossetto sono frequenti. Fra Gioachino non è un teologo nel senso tecnico del termine: il suo è un approfondimento della Parola di Dio, avvenuto più nella preghiera e nella contemplazione che nello studio teorico.
Nel suo cammino spirituale possiamo notare una progressione incessante.
All’inizio c’è in lui una pietà semplice ma fervida, articolata in pratiche devote ed in celebrazioni liturgiche vissute con intensa fedeltà e partecipazione. Egli vive la liturgia come espressione di una vita interiore molto esigente, trovando alimento continuo nella Parola di Dio e nell’Eucaristia. Questo lo porta a mettere l’accento sulla “immolazione”, sul dono della vita, vissuto in un clima eucaristico di “vittima” e di “riparazione”.
Pian piano, da tale spiritualità, fortemente cristocentrica ed eucaristica, appare naturale in lui il passaggio alla centralità del Padre, perché ad essa porta Gesù stesso, pura Parola del Padre.
Sempre più frequentemente egli parla e scrive, ma soprattutto vive l’abbandono “in Dio Padre”, atteggiamento via via sentito come amore filiale, pienamente fiducioso, teneramente confidente.
Nelle sue lettere dei primi anni si ritrovano solo alcuni cenni al Padre, soprattutto come fondamento della fiducia e dell’abbandono in Dio.
Un po’ alla volta però il richiamo si fa più esplicito e concreto.
Dopo il ritorno dall’Africa, egli accenna spesso, con piccole varianti, all’espressione “vivere per Gesù, con Gesù e in Gesù per il Padre”, facendo riferimento esplicito alla dossologia eucaristica.
Verso gli anni 1920, scrive ripetutamente e con chiarezza riguardo a Dio conosciuto e amato come Padre:
“Dio Padre. O dolcezza, o soavità, tenerezza, forza, nobiltà. Quanto è larga, profonda e alta questa parola: Padre, Dio Padre! Egli è il Padre di tutto, di tutti, di mio padre e di mia madre, ed è il mio Dio e mio Padre!”
Più tardi, adotta un linguaggio molto familiare:
“Abbà! Padre! ‘Abbà’ è, nel dialetto di Gesù, come ‘papà’ nel dialetto nostro. Ci è stato riportato questo grido in quel dialetto perché lo intendessimo e lo gridassimo nel nostro: – Papà, Papà!”
Ma c’è chi lo accusa di sentimentalismo, e qualcuno usa addirittura la parola ‘sensualismo’. Lui, però, non si spaventa, ed annota:
“Alcuni si scandalizzano perché Lo chiamo ‘Papà!’. Se sapessero che Lo chiamo anche ‘Mamma’! E ci tengo ad aver ragione…, perché le nostre pazzie hanno come base tante cose che si trovano nel Vangelo, e in San Paolo, e in San Giovanni!”.
Quando, nel 1978, il Papa Giovanni Paolo I, in un discorso del suo breve pontificato, ebbe il coraggio di dire che Dio ci è Padre e anche Madre, si sollevò un coro di ironie… Immaginarsi per un povero frate che fin dal secondo decennio del secolo scorso scriveva:
“Per Gesù, mio Padre è Dio, mia Madre Maria. Gesù è l’incarnazione della bontà paterna di Dio. Maria rappresenta quasi la bontà materna di quel Dio che ha voluto farsi chiamare anche nostra Madre, per destare meglio ed eccitare di più il nostro cuore sonnolento, ed ha scelto in ogni modo, per ogni opera della redenzione, il concorso d’un Padre in Gesù, d’una Madre in Maria”
Le citazioni si potrebbero moltiplicare, ma si ritiene opportuno concludere indicando le conseguenze pratiche cui è arrivato P. Gioachino nella sua riflessione sulla paternità di Dio. Le troviamo in una lunga lettera che egli ha scritto da Genova ai suoi Figli e Figlie spirituali.
È la lettera conosciuta con il titolo di “Clausura”, perché in essa è raccontata l’esperienza d’amore di Dio che si fa presenza di intimità feconda nel cuore e nella vita di ogni suo figlio e figlia, suscitando quindi una risposta di amore concreto e filiale nella vita di ogni giorno.
È la consegna di uno stile di comunione e di condivisione da realizzare e testimoniare in ogni ambiente in cui viviamo.
“Figli di Dio, noi dobbiamo sempre aver di mira e tener presente che, adottati dal Padre come figli, lo potremo essere solo sull’esempio e ad imitazione del Figlio di Dio Unigenito: “Il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio” (Gv 1,1).
Ecco la sua esperienza d’intimità di amore, la sua “clausura”: il seno del Padre, in cui vedeva ed amava tutto, amato e visto dal Padre.
La gloria del Padre e la nostra redenzione lo trassero di là in terra. Qui si è formato un’altra “clausura”: il seno di Maria, e poi il tabernacolo, e il nostro cuore. Egli regna nel mondo e nei cuori, passa per le strade chiuso eppur palese nel cuore dei suoi, nel loro comportamento, nelle loro virtù, nel loro zelo.
Così dobbiamo stare noi nel seno del Padre, e uscirne per il prossimo, portare Cristo e il Padre nel cuore con noi e nel cuore del nostro prossimo.
Noi dobbiamo portare con noi Dio per le strade, vivendo in Lui; esprimerlo fuori perché lo abbiamo dentro, darlo senza privarcene, stare in Lui senza sottrarci al prossimo: ecco, mi pare, quello che fa continuamente il Figlio di Dio e che insegna a noi.
Così, noi andremo al prossimo conservandoci nel seno del Padre, e a Lui ritorneremo ogni volta che grideremo: – Padre! Papà!
Doniamoci con Gesù, e con Lui torniamo e fissiamo la nostra dimora nel seno del Padre, la cui gioia eterna sia nei cieli. Amen!” (Genova, 15.11.1930).
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