
L’ULTIMO “LASCIATI PORTARE”
(1934-1935)
Con il 1934 inizia l’ultimo tratto del cammino umano di P. Gioachino, un itinerario di passione senza filtri e senza difese, suggellato da un progressivo aggravarsi delle condizioni fisiche. Scrive:
“La stanchezza dello scrivere mi viene dalla vista, anche però dalla mano e dalla testa…, e devo ricorrere alla forza del cuore per risolvermi a scrivere” (16.2.1934).
Svanita la possibilità di dedicarsi alla Famiglia, le lettere diventano per lui un eccezionale documento intimo, dove incidere l’anelito di tutta la sua vita. In testata pone l’invocazione “Pater, fiato!”, come reiterato fervore dell’animo:
“Dico ‘fiato’ invece che ‘fiat’ perché, volendo essere un figlio di Dio, dico con Gesù: – Io faccio sempre quello che piace a Lui – e perché io sento troppo il bisogno di vita piena, come la sentiva la statua di creta che, dopo il fiato divino, si scosse e si chiamò ‘Adamo’, vivo e intelligente. Io ho bisogno del ‘fiato’ del Padre Celeste come Adamo.
E lo Spirito Santo è più pronto ad entrare nel nostro cuore, che non l’aria ad entrare nei nostri polmoni. Ne ho bisogno per fare ad ogni fiato una comunione spirituale, ed anche ad ogni fiato dire ‘fiat’, che sia come un desiderio di martirio per la glorificazione del caro Nome del Padre Celeste” (25.1.1934).
Verso fine febbraio 1934 è colto da un’altra paralisi, che gli toglie in gran parte la vista e frantuma gli ultimi brandelli della sua permanenza ad Alessandria.
All’inizio di marzo viene ricoverato a Milano per alcune urgenti ed immediate cure. Alcune visite dei sacerdoti a lui spiritualmente vicini lo confortano e gli portano notizie della Famiglia, ma ormai si vanno spegnendo in lui le forze per dialoghi impegnativi e addirittura anche per semplici conversazioni.
A metà marzo 1934 si decide di inviarlo a Tirano, un piccolo paese tra le montagne della regione della Lombardia. Il convento è annesso ad un antico santuario mariano. Nella ‘lettera di obbedienza’ sono incluse alcune disposizioni attribuite al Sant’Ufficio:
“Questa suprema sacra Congregazione, attese le gravi condizioni di salute del P. Gioachino Rossetto, autorizza a trasferirlo nel convento di Tirano, sotto speciale sorveglianza, così che egli non possa, in alcun modo, né con lettere né con visite, tenersi in relazione con persone estranee, specialmente di altro sesso” (17.3.1934).
Il Fratello converso che lo assiste afferma:
“Al leggere quei fogli, P. Gioachino rimase sereno, offerse tutto, ed esclamò: – Non vorrò più avere alcuna notizia; ci rinchiuderemo in una cesta, lasciando fare tutto al Padre Celeste”.
Prima di partire per Tirano, ha modo di prendere visione delle bozze di un regolamento per la “Casa San Raffaele” di Vittorio Veneto, elaborato da due dei sacerdoti suoi amici. Ne è contento ed approva.
É di aprile 1934 l’ultima lettera di suo pugno:
“Mi azzardo a scriverle perché penso abbia care mie notizie, e posso dargliele buone. … Credo che sarò mandato a Tirano. So che anche là c’è un bel Padre Celeste e la Madonna, che pare mi dica: – Che cosa vuoi?” (8.4.1934).
Il 23 aprile 1934 viene trasferito a Tirano e, appena arrivato, fa scrivere al priore generale la sua piena sottomissione a quanto stabilito.
L’ambiente fraterno e sereno e la premurosa cura dei confratelli aiutano P. Gioachino a risollevarsi almeno nell’animo, se non nell’irreversibile malattia.
Ma dalla fine di dicembre 1934 non celebra più la Santa Messa e, cosciente della paralisi progressiva che gli toglie ormai completamente la vista, entra in una serena rassegnazione solcata, tuttavia, dalla segreta speranza di una guarigione.
Nel frattempo, vengono presentate a Roma alcune relazioni sulla Famiglia. In esse non viene neanche più nominato P. Gioachino, anzi si dà per definitivamente disciolta l’esperienza delle Figlie di Dio. Si attua così, paradossalmente, quel “nascondimento” che solo in parte egli aveva potuto indicare loro come marcata e suggestiva presenza nel mondo.
Il 29 maggio 1935 inizia l’ultimo tratto del calvario di P. Gioachino: un ennesimo gravissimo assalto della malattia lo pone in condizioni pietose.
A Tirano c’è un andirivieni di confratelli e parenti, nel santuario di Monte Berico si fa un triduo di preghiera alla Vergine.
Ma ormai il declino è irreversibile. L’11 giugno 1935, sul far del mattino, egli rende l’anima a Dio.
Il fratello Don Giovanni chiede che la salma sia trasportata a Vicenza, ma il priore generale non dà il permesso ed il funerale si svolge a Tirano il 13 giugno. La salma è inumata provvisoriamente nel cimitero locale, in attesa di essere trasportata a Milano, poiché il convento di Tirano non ha ancora, in quel cimitero, una cappella funeraria propria.
Un epilogo ancora nel segno dell’incomprensione che, per la verità, lascia un doloroso strascico, relegando la figura di P. Gioachino Rossetto in un abbandono fatto di silenzio sulla sua appassionata e coraggiosa attività.
A quanti l’hanno conosciuto e stimato egli lascia, però, il profetico anelito d’una testimonianza di vita quotidiana nel mondo, con nel cuore la suadente e gioiosa verità dell’amore del Padre, della nostra figliolanza divina e di una profonda fraternità.
Anche dopo la morte, pare che P. Gioachino continui quella itineranza che ha caratterizzato gli ultimi anni della sua esistenza terrena.
Pochi mesi dopo la sua morte, infatti, nel novembre 1935, la sua salma viene trasportata a Milano, nella tomba di famiglia dei Servi di Maria, dove rimane fino al 1959.
Nel marzo di quell’anno, su richiesta dei familiari, viene trasferita a Schio.
Vent’anni più tardi, nel 1979, per desiderio dell’Istituto San Raffaele Arcangelo, è portata nel cimitero monumentale di Vicenza, e tumulata nella cappella funeraria della famiglia Fogazzaro.
Finalmente, in un clima interno all’Ordine dei Servi di Maria che si sta progressivamente rasserenando, il 16.11.1987 la sua salma può ritornare a Monte Berico, nel nuovo cimitero della provincia veneta dell’Ordine, per riposare accanto alla Madre della misericordia.
In tale occasione, uno dei suoi figli spirituali lo sente rivivere e lo immagina rivisitando egli stesso la sua vita, in dialogo con la Prima Figlia di Dio, Santa Maria di Monte Berico:
“Madre mia, eccomi qua. Al Monte Berico della tua gloria, al Monte Berico della mia vocazione. Madre, con Te al Monte, sempre. Arca vagante in vita ed in morte, all’Ararat della pace. Pastore di cammini nuovi, al Sinai della libertà obbediente. Amato nel Diletto, al Tabor del Volto di Luce. Figlio della speranza, al monte della beatitudine promessa. Cireneo del sorriso del Padre,
al Calvario dell’incontro con la Madre, oltre i muri abbattuti, per la riconciliazione e la vita. Madre, mi hai mostrato il Padre: con Te l’anima mia magnifica il Signore. Mi hai insegnato il SÍ che redime: con Te e come Te, in vita, in morte, oltre la morte, FIAT!”.
Nel 1995, nel santuario di Monte Berico, viene aperta la causa di beatificazione di P. Gioachino Rossetto a livello diocesano, ora già conclusa e trasmessa a Roma.
Nel 2001 la sua salma viene portata in luogo pubblico, nel chiostro del convento di cui è stato per tanti anni priore, sotto l’altare principale del santuario, dove tante volte ha celebrato la vita, morte e risurrezione di Cristo. Sotto il manto della Madre della Misericordia attende la risurrezione.
Nell’artistico tumulo accessibile ai fedeli, che lo visitano numerosi fermandovisi in preghiera, sono riportate le sue parole di offerta e fiducia:
«Grazie, o Dio, per avermi dato la vita… Padre mio, io ti offro e consacro tutta la mia vita, e ti offro anche la mia morte”.
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