
UNA LUNGA E SOFFERTA
ITINERANZA
(1928-1933)
Con l’autunno del 1928, inizia per P. Gioachino un difficile e penoso periodo della sua vita, segnato da sospetti, e denigrazioni, miranti a toglierlo dalla direzione dell’Opera iniziata, per farla conseguentemente convogliare nei canali di una Congregazione canonicamente approvata. Però, l’intrapresa itineranza di animazione missionaria è per lui occasione propizia per un contatto con i vari gruppi locali della Famiglia. L’intento è quello di rafforzare gli animi, constatando per di più che sorgono un po’ dovunque istituzioni simili alla sua. Definendole ‘rivi’ sorti lungo il corso ‘del nostro rigagnolo’, P. Gioachino è sospinto a definire ulteriormente la specificità della Famiglia:
“Nel corso che il nostro rigagnolo ha seguito, abbiamo potuto scorgere altri rivi paralleli al nostro, o di poco varianti, che vanno al loro e nostro mare. Ci sentiamo un po’ punti di gelosia? di invidia? di timore che le nostre acque purissime abbiano a confondersi con altre benché non meno pure e sante? No. Benché essi siano sorti dalla stessa nostra falda di neve, noi forse i primi abbiamo un privilegio che non ci può essere tolto, se noi non ce ne renderemo indegni: quello di essere noi stati scelti da Dio a ravvivare nel mondo la fede nella sua vera ed amorosissima paternità” (18.11.1928).
Nella stessa lettera, egli accenna al progetto di un Tempio
“alla Paternità di Dio, alla divina misericordia, all’Amore incompreso. Un Tempio dove si viva l’adorazione silenziosa, calma, umile; dove la preghiera fervida e le Comunioni siano continue; dove il Padre trovi figli che Lo adorino in spirito e verità, sopra i quali Egli possa ripetere le voci della sua divina paterna compiacenza: – Questi sono i miei figlioli diletti, nei quali io sempre mi compiaccio” (18.11.1928).
Il progetto del Tempio alla Paternità di Dio non andrà mai in porto, ma è un’idea legata anche alla possibilità di avviare finalmente un gruppo di sacerdoti Figli di Dio, realizzando il ‘voto’ emesso durante la malattia del 1927, ma soprattutto dando un importante sostegno al ramo femminile e al sognato ramo maschile dell’Istituzione. Scrive infatti:
“Quanto godo nel ricordare i vari ‘proficiscere’ (esci e parti) che sono stati pronunciati sopra di me, sicuro che tutti mi sono stati detti per offrirmi a voi e alla grande opera della Paternità di Dio. …. Ora aggiungo anche la parola ‘Fratelli’, perché li penso e li voglio. Penso ai Fratelli di Gesù, che si donino, che si consacrano alla Paternità di Dio in sé e nelle anime” (4.12.1928).
Questi progetti s’innestano nell’alveo spirituale della sua ‘nuova vocazione’, cioè nell’incondizionata, totale dedizione a vivere da figlio di Dio, nel Figlio, per il Padre; quindi, ad incorporarsi nella missione di Gesù stesso: manifestare il nome del Padre. Questo sentire diviene la più disarmata offerta di se stesso, l’ultimo impegno in un cammino profondamente segnato dalla malferma salute. Paradossalmente, è proprio questa situazione di fragilità fisica a far emergere le intenzioni dei suoi superiori, miranti ad allontanarlo dalla Famiglia delle Figlie di Dio.
UDINE
All’inizio di dicembre 1928 P. Gioachino viene inviato al convento di S. Maria delle Grazie in Udine, per tempo indeterminato, finché non sia ‘venuto il momento di chiamarlo a Roma’. Commentando tale richiesta di obbedienza, scrive alle Sorelle della Famiglia:
“Ieri, festa dell’Immacolata, venne il nuovo segno di predilezione, la destinazione a Udine… La lama è penetrata giù, fredda. Ma era l’Immacolata, ed ho fatto la mia consacrazione vivente. È tutto per la nuova vocazione, per la nuova vita, per il Tempio, per la gioia del Papà” (9.12.1928).
Parte da Vicenza lasciando dietro di sé il diffuso sospetto che i suoi “giri” di animazione missionaria ed i periodi di riposo per la malferma salute siano solo pretesti, ‘un lavorio per non andare a Roma’. Scrivendo al confratello ed amico P. Anacleto Milani, che lo esorta a recarsi a Roma per dissipare queste insinuazioni, afferma:
“Io preferisco fare la volontà di Dio piuttosto che fabbricarla io… Da un pezzo ormai sono convinto che Dio non vuole da me la Missione altrove. Qui sono esiliato dall’Istituto, ormai non avvicino più nessuno. Ma mi sento ripetere: – A te ho dato la Missione qui in Italia, non in Africa” (24.12.1928).
Poiché tra i confratelli circolano chiacchere riguardo alla sua maniera di vivere l’obbedienza, avendo essi l’impressione che il suo agire non sia in consonanza con quanto indicatogli, scrive:
“Sono già di Dio nell’obbedienza. Questa è il mio aeroplano. Perché mi dovrei buttar fuori? Mi butterei fuori da qualunque aeroplano solo se me lo comandasse l’obbedienza. Allora troverei a ricevermi le braccia di Dio Padre, eternamente Padre” (20.02.1929).
Come si può capire, ormai P. Gioachino è decisamente orientato verso la sua Famiglia. Anche da Udine mantiene una vivace corrispondenza con quei sacerdoti che ha già incontrato (cfr. sopra, cap. 9), e che ha più volte interpellati circa la possibile disponibilità di un loro coinvolgimento per dare inizio al ramo sacerdotale dei Figli di Dio. L’orizzonte rimane, tuttavia, molto incerto e legato all’approvazione giuridica della Famiglia. Eppure tutto è rivisto sotto il segno della paterna Provvidenza di Dio: cresce l’impegno di abbandono al Padre, forma d’intimità e di confidenza che lo spoglia progressivamente di ogni ‘amor proprio’, fino ad ancorarsi sempre più in un dono totale. Scrive:
“Ho preferito lasciar fare tutto al Padre buono. Anche in questo modo egli ci vuol far conoscere che è Lui il Padre di ogni grazia” (7.1.1929).
Non è un’evasione mistica dai problemi reali, ma piuttosto un sentire che con questi s’intreccia e di questi diventa motivazione.
Pur nel lento declino fisico, con ritorni più o meno acuti dell’infermità, P. Gioachino si dedica anima e corpo alla già ideata Pia Unione di Sacerdoti Figli di Dio: anche qui si tratta di secolarità, in quanto il sacerdote divenuto membro dell’Istituzione resta cooperatore del suo vescovo come membro del clero diocesano. I primi mesi del 1929 sono, quindi, un intreccio di iniziative che potrebbero fomentare un’intelaiatura priva di corposa chiarezza. In realtà, divengono provocazione ad entrare nella duttilità delle circostanze, delle occasioni, dei bisogni, con la coscienza che al di sopra del calcolo e della logica umana c’è sempre l’imperscrutabile disegno d’amore del Padre. Scrive infatti P. Gioachino:
“Godo pensare che il Papà voglia giocare con noi a rimpiattino: ci chiama da una parte, e corriamo da quella… Subito ci chiama da un’altra parte, e noi corriamo là… Ma Lui è altrove… Così ha fatto anche con Maria, la prima Figlia sua… In verità, quando lo si è capito, non è un cattivo gioco! Bisogna lasciarlo fare, e correre sempre dove ci chiama” (8.2.1929).
Sono temi non propriamente organici, ma sicuramente ricchi di suggestione, irrobustiti dalla progressiva inquietudine dinanzi alle incomprensioni per l’Opera e ai difficili rapporti con i superiori dell’Ordine. Comunque, egli continua a sondare la possibilità che la Famiglia si sviluppi “nei suoi Tre rami”: i sacerdoti, le consacrate laiche ed i consacrati laici.
Presentendo che nei suoi superiori si stia facendo strada l’idea di fargli accantonare il programma per i sacerdoti, pur rinnovando a più riprese il suo attestato di ‘obbedienza’, P. Gioachino non può che prendere atto dell’arduo cammino che gli si para davanti, con la prospettiva di trovarsi sempre più isolato e frainteso. Tuttavia rimane irremovibile nella convinzione che occorre formare
“l’elemento principale, i sacerdoti, come fulcro e nervo della stessa Istituzione”, per la conservazione dello spirito e la fedeltà agli ideali. Con ciò non viene stravolta né depauperata la fisionomia della Famiglia, anzi si struttura in elementi più precisi. Scrive infatti:
“Non godo la necessaria piena fiducia dell’Autorità. Per la gloria di Dio e per il bene dell’Istituzione, è mio primo e principale interesse riacquistarla, se e come piace al Padre, che fa morire e vivere, che umilia e risolleva. …. Ora mio principale lavoro, oltre alla propagazione della devozione a Dio Padre, dev’essere per formare i nuclei di sacerdoti e laici” (aprile 1929).
Evitando sempre pretesti e stile polemico, P. Gioachino si sforza di formulare un’istanza normativa per la Famiglia, sempre conservando fedeltà al cammino iniziale, sempre con profonda risonanza a quell’ispirazione che, con sempre rinnovato entusiasmo, egli porta nel cuore e che sente come venuta da Dio. Scrive:
“La formula per noi ci deve essere, e deve includere la convivenza, senza veste, senza Opere ufficiali, con adorazione e opere di carità. … La convivenza deve essere conseguenza delle opere di carità” (27.4.1929). In questo quadro ben caratterizzato, P. Gioachino cerca di dissipare alcuni timori insorti, anche presso i sacerdoti a lui vicini spiritualmente, di voler formare una Congregazione. Ma dinanzi all’impossibilità che questi ultimi si rendano disponibili ‘in via assoluta’, e constatando che pur restando ‘secolari’, cioè sacerdoti diocesani uniti in Pia Unione, non riescono a garantire un adeguato appoggio all’Istituzione, viene maturando l’idea di dar vita proprio ad una Pia Unione di sacerdoti, come fulcro che sostenga i Tre Rami. Scrive:
“Penso alla necessità dei sacerdoti, e questi almeno a tutta disposizione dell’Istituzione, per il ‘Sia santificato il tuo nome’. Una Famiglia di sacerdoti per questo… E poiché mi pare che io non potrò dedicarmi ad essa come vorrei, ecco sorgere la necessità di una Casa, ma… chi metteremo come responsabile? E allora penso: intanto prendiamo dei piccoli, portiamoli avanti finché potremo e intanto si fa strada, e il sole sorgerà più nitido” (3.5,1929).
Non è certo il suo ideale, ma piuttosto un progetto che è quasi costretto a formulare, tanto più quando incomincia ad intuire la crescente volontà di toglierlo dalla direzione della Famiglia.
I primi mesi del 1929 sono caratterizzati dall’urgenza di affrontare questo nodo decisivo, sebbene le indicazioni lascino intravvedere difficoltà e non facili intese con i superiori. Scrive:
“Oggi abbiamo tutto nel deserto. Ma la terra promessa verrà. … Sento che io devo scomparire, come la buccia della semente affinchè questa nasca e cresca. Dio farà, dopo la croce e la morte” (17.5.1929).
Proprio in forza di tale convinzione, P. Gioachino elabora questi progetti avendo sempre nell’animo il fermo abbandono nelle mani del Padre, che tutto governa, che ha misteriosi disegni, che fa concorrere ad un piano unitario ed armonico tutte le cose, anche quelle che possono sembrare storte. È in questo sentire che la contemplazione della paternità di Dio diviene richiamo a lasciarsi compenetrare nel mistero dell’amore trinitario. Scrive ad un giovane:
“Chiama il Papà, pensa che Egli ti ama immensamente, che ti ama fino ad aver dato alla morte di croce il suo Figliuolo Gesù per te. Ed anche Gesù ti ama, tanto da venire sulla terra e morire sulla croce per te. E pure lo Spirito Santo ti ama, dandoti il diritto e la fiducia di chiamare Dio: Padre” (3.3.1929).
Quasi a correggere la prospettiva utilitaristica di coloro che si avvicinano alla sua Istituzione, P. Gioachino si preoccupa di tener desta la capacità di guardare con occhio purificato e purificante gli 37 avvenimenti, con un’anima umile che si lascia lavorare da Dio per vivere come è vissuto il Figlio di Dio, in una sequela anche sulla via dolorosa, per essere conformati alla sua sorte di dolore, di morte e di gloria. Nasce da questo sentire la “seconda regola delle Figlie e dei Figli di Dio”, il “QUADERNO DELL’UMILTÀ” . Sono pagine intrise da un profondo discernimento spirituale, teso a capire che cosa significhi essere permeati dallo Spirito di Cristo, “l’Amore che viene a te per la via della Verità, per darti la Vita”:
“Povero uccellino fatto dalle mani di Dio, invano vorresti forse fuggire da Lui. Le sue mani sono oltre il tuo nido, sono il tuo nido e il tuo spazio. Vola, vola: sarai sempre in quelle Mani, ed Egli le tiene incrociate nella Croce del tuo Redentore” (Quaderno dell’umiltà, 1.3.1929).
Il timore che si vogliano mettere in sordina le ispirazioni iniziali della Famiglia porta P. Gioachino a percorrere un cammino di discernimento non più garantito da sostegni esterni, ma attraverso un viaggio all’interno di se stesso, dove si fa anzitutto esperienza di vita. Scrive:
“Capisco che mi si spengono un po’ alla volta i lumi attorno, come dopo una funzione religiosa. Capisco che rovino io stesso la mia carriera… Ma la mia carriera è andar giù, giù a capofitto. Ma, purché nell’oscurità della notte che mi si addensa attorno resti il tabernacolo, con la sola lampada della fede e della carità, basta! Ormai la vita ordinaria della comprensione e del plauso è abbandonata. Il dado è gettato. Mi sono buttato in Dio, nelle braccia di quel Padre che sta al di là della stella più lontana” (8.5.1929).
FOLLINA
Nel maggio 1929, P. Gioachino è inviato alla comunità di S. Maria di Follina e, data la vicinanza con Vittorio Veneto (17 Km.), ha modo di sondare il terreno presso S.E. Mons. Eugenio Beccegato, al fine di trovare un vescovo cui appoggiarsi. In effetti, i primi approcci ridestano inaspettate ed ormai assopite speranze, data la disponibile benevolenza di quel vescovo.
Con fiducia, verso la fine di maggio si reca anche a Parma, presso l’abate benedettino P. Emanuele Caronti, da lui conosciuto e stimato, per tentare di elaborare insieme uno statuto che ottenga finalmente l’approvazione. È sempre preoccupato che non vengano meno le caratteristiche iniziali della secolarità.
Ma anche questa iniziativa non sortisce l’effetto desiderato: le critiche si condensano sul suo stile di dirigere la Famiglia e le incomprensioni salgono di tono, lacerando il suo animo in una specie di autodemolizione critica.
Il soggiorno a Follina e la disponibilità incontrata presso S.E. Mons Beccegato inducono P. Gioachino a progettare l’apertura di una casa a Vittorio Veneto, che sia base di partenza per la formazione dei futuri sacerdoti. Tutte le Sorelle membri della Famiglia sono coinvolte a questo suo progetto e si impegnano con preghiera intensa, sacrificio e lavoro a renderlo possibile.
La prospettiva non è infondata, dato che a Vicenza si è già raccolto un gruppo di ragazzi, per interessamento delle Figlie di Dio, alle quali P. Gioachino ha scritto:
“Vi sarà un giorno la Comunità dei Sacerdoti nostri, Figli di Dio, essi vi alimenteranno… Ma bisogna meritarli… La vostra maternità deve essere consacrata fino a diventare maternità di Sacerdoti… I Sacerdoti, in genere, sono figli di madri sante. Le mamme eucaristiche formano i Sacerdoti. Ecco il segreto della vostra fecondità” (2.6.1929). L’impegno a dar vita ad una Unione Sacerdotale che sia “perno” rispetto alle Figlie di Dio viventi nel mondo, comincia ad assumere connotati progettuali ben precisi.
Il 28 agosto 1929, con il pieno consenso di S.E. Mons. Beccegato, viene acquistata una casa in Vittorio Veneto, con lo scopo preciso che divenga un centro di formazione per “Sacerdoti Adoratori Missionari Figli di Dio”.
La casa viene inaugurata il 24 ottobre 1929, festa liturgica dell’arcangelo S. Raffaele, accogliendo i primi sette ragazzi, e viene chiamata “Casa Pater”. È presente il vescovo, il parroco della parrocchia in cui la Casa si trova, ed alcune persone amiche.
Arriva pure la benedizione del Papa Pio XI: “Implorata benedizione Sua Santità scende copiosa su novella Casa, auspicante provvida Istituzione largamente feconda frutti santificazione cristiana” (Città del Vaticano, 24.10.1929). P. Gioachino ne gode immensamente e, sia da Follina sia restando qualche giorno a Vittorio Veneto, si dedica intensamente all’avvio della vita nella nuova Casa. Anche per questo, non incontra spiragli di dialogo con i superiori; anzi, gli vengono ripetute le critiche di “disamoramento all’Ordine” e di poca obbedienza.
Di fronte a queste incomprensioni, non ci si meraviglia che a P. Gioachino si affacci l’idea di lasciare l’Ordine per dedicarsi totalmente alla Famiglia.
L’amico e confratello P. Anacleto Milani lo fa ritornare su più larghi propositi, ed egli precisa:
“Io sento ancora vivo ed efficace il suono di quella voce: – Lasciati portare! A quella voce sono stato fedele fino ad ora, sempre. Anche ora mi lascio portare, e non faccio un passo da me che non vi sia obbligato. … Io sono di Dio: faccia Dio di me quello che vuole” (10.12.1929).
Il ‘Lasciati portare’, cui P. Gioachino si rifà, può forse dare l’impressione di una mera passività; in realtà, diviene impegno profondo della volontà e della fede che si aprono ad una capacità d’azione affettiva che va al di là del tornaconto personale. Abbandonarsi diviene l’arte di amare e di credere che suggella il “dovere di farsi santi”. Tale dovere non è posto su uno sfondo mistico ed idealistico, ma viene radicato nella stessa vocazione dell’uomo, poiché la santità è il desiderio profondo ed il vero destino di ognuno di noi. Scrive al fratello D. Giovanni:
“Voglio che anche tu sia vero figlio di Dio, sacerdote, vivente dove sei o dove ti vorrà il Padre Celeste, ma santo, come il Figlio di Dio Gesù, in pura fede, in forte amore, in pieno ed amoroso abbandono a quel Dio che crediamo essere Padre, onnipotente, amorosissimo, sapientissimo… E non lo crediamo mai abbastanza!” (29.11.1929).
E ad una ‘figliuola’ spiega cosa significa ‘farsi santi’:
“Se in verità crediamo che Dio sia Padre, e Padre onnipotente, che ci ama fino al punto da dare alla morte di croce il suo Figlio Unigenito per ‘comperare’ tutti noi…, se questo è vero, c’è da impazzire! … Ed allora, non ci resta che donarci a Lui in puro amor filiale, totalmente, e con gioia. Non ci resta che volerci far santi, ma davvero, in silenzio, in pace, nel nascondimento, nella purezza, nell’umiltà, nella pazienza, nella dolcezza, nella gioia, nell’abbandono. Chi di noi può esimersi dal grave dovere di farci santi? (18.12.1929)
Avvalendosi dell’itineranza per la predicazione nelle parrocchie della diocesi di Vittorio Veneto, e con i dovuti permessi, P. Gioachino si reca diverse volte a “Casa Pater” di Vittorio Veneto, per brevi incontri con i giovani studenti.
Sarà bene notare che le difficoltà di P. Rossetto con i superiori del suo Ordine Religioso sono dovute soprattutto alla novità della sua proposta di consacrazione a Dio nel mondo. Qualche decennio più tardi i suoi confratelli riconosceranno la validità della sua proposta.
Il 1930 si apre, dunque, con allarmate reazioni al suo operato da parte dei superiori. Continuano le accuse di “disgregazione e distruzione delle opere dell’Ordine”, nonché di rendersi troppo indipendente dai suoi superiori; per qualche tempo non gli viene concesso di pubblicare il foglietto mensile “PATER!…” (cfr. sopra, cap. 9), e vengono ridotte le sue possibilità di movimento.
L’accavallarsi di questi avvenimenti è visto da P. Gioachino come un’assimilazione al mistero doloroso della croce “per la gloria del Padre”. Riprendendo alcune riflessioni liturgiche in riferimento alla settimana santa, scrive:
“Che giorni sono questi! Ma perché devono proprio coincidere con quelli della Passione del Figlio di Dio? … Sento forte questa verità: Gesù è il Figlio di Dio; come Figlio, Egli non vive che per il Padre, per la gloria e la gioia del Padre. … Siccome per dar gloria al Padre bisogna rassomigliare al Figlio suo Gesù, ed il Padre ha sempre visto e voluto Gesù ‘crocifisso’, così chiunque vuol dar gloria e gioia al Padre deve porsi e lasciarsi porre sulla croce” (15.4.1930).
ROMA
Verso la metà di maggio 1930, P. Gioachino riceve il permesso di recarsi a Roma, dove si trattiene per circa due mesi. È un soggiorno tormentato da persistenti pressioni e pesanti critiche allo spirito dell’Opera “Pater”. Si asserisce, infatti, che “la devozione al Padre è poco seria e poco liturgica” (17.5.1930), troppo sentimentale, addirittura malata di “quel sensualismo ed evoluzionismo ideale e spirituale già condannato dalla Chiesa” (25.6.1930).
Le imputazioni fanno breccia nelle alte sfere romane, tanto più che proprio nel maggio 1930 si è aperto, presso il Sant’Uffizio (oggi: Congregazione per la Dottrina della fede), un procedimento investigativo a carico di P. Gioachino. In esso confluiscono tutte le lagnanze, le accuse, le malevolenze emerse, soprattutto circa la dottrina della “devozione al Padre”.
Con l’acutezza e la vivacità di sempre, egli tenta di ricollocare i turbinosi fatti degli ultimi mesi in un quadro più ampio, rapportandoli ai valori ed al senso della vita umana, radicandoli ai livelli più alti della fede. Frequenti sono gli inviti al “silenzio”, come abbandono “nel concavo della mano di Dio”.
Ritornando a Follina, P. Gioachino si reca a Vittorio Veneto per visitare “Casa Pater”, ma il suo agire è visto in modo estremamente negativo: su infondate testimonianze, viene di nuovo accusato di reiterata disobbedienza. È una visione distorta dei fatti che provoca conseguenze tristi: il Priore Generale è costretto a prendere alcune misure disciplinari nei suoi confronti, e comincia addirittura a delinearsi la possibilità di una sua destinazione in un convento fuori della provincia veneta. Artificiose incomprensioni ed interessi di parte consumano ormai un irreversibile distacco tra lui e l’Ordine, segnando indelebilmente il suo animo. Egli, tuttavia, rimane ancorato in un immutata pace interiore; scrive:
“Per la festa della Madonna, attendo il solito regalo della Figlia di Dio, qualche nuovo colpo che mi avvicini al Figlio di Dio. Come si sta più uniti a Dio in questo tempo, come si prega, come si sta abbandonati, vigili, pronti, vivi… Come purifica questo dolore così intimo, e come umilia, a tutto vantaggio della fede, della speranza e della carità! Io sono in tanta pace di fede che mi sorprende…” (13.8.1930).
Quanto da lui atteso, si avvera: viene assegnato al convento dei Servi di Maria a Genova, con la precisa ingiunzione “di non fare cosa o dire parola che possa venire interpretata come contumacia” (14.8.1930). La sua reazione è sempre in linea con il suo spirito interiore: “Adoriamo con tutto l’animo le disposizioni della paterna e onnipotente Provvidenza. Adoriamo, e lasciamoci portare soavemente, come sempre. Dio fa più da Padre a chi Gli fa più da figliuolo” (16.8.1930).
GENOVA
Dalla tarda estate 1930 inizia quello che possiamo definire il lungo esilio di P. Gioachino fuori dalla sua provincia religiosa. Arriva, infatti, a Genova il 26 agosto 1930 e vi resta per una decina di mesi. Vive in una continua tensione spirituale, ma sempre… “lasciandosi portare”; confida al fratello D. Giovanni:
“Di me non so nulla, se non che sono tutto di Dio e in Dio. Mi si proponesse di andare in Argentina o a Rio de Janeiro, calmo calmo accetterei e andrei. E l’Opera?… Credo in Dio, e Dio sa fare anche da solo, se sa fare anche con me che Gli guasto tutto. Fa meglio Lui da solo che con me! Confido che tutto andrà avanti bene” (18.9.1930).
La sua attenzione, comunque, è rivolta più che mai ai giovani studenti di “Casa Pater” a Vittorio Veneto, sempre al centro dei suoi pensieri e delle sue speranze. Proprio per imprimere una precisa fisionomia spirituale ai futuri sacerdoti, già dal 1929 ha iniziato a stendere alcune riflessioni spirituali, piste per la loro formazione. Gli appunti vengono completati un po’ alla volta, soprattutto a Genova, fino al 1931, e portano il suggestivo titolo di “QUADERNO DEL FRUMENTO”. Bellissima la motivazione iniziale: “Divenire frumento, non paglia. Frumento per l’unione dei chicchi in una sola spiga, per essere nato nel gelo e morire… Con questo bellissimo simbolo vengono raffigurati tutti i sacerdoti, ma specialmente i sacerdoti figli di Dio” (Quaderno del Frumento, 1).
Le accuse nei confronti di P. Gioachino raggiungono il culmine nel novembre 1930, con una nuova denuncia al Sant’Ufficio, per opera di una donna di Follina; decenni più tardi ella stessa ritira la denuncia. In questi frangenti aggrovigliati e tesi ad un crescente isolamento di P. Gioachino, egli si mostra sempre disposto ad affrontare qualsiasi dolorosa disposizione purché la Famiglia possa proseguire il suo cammino. Scrive:
“Non c’è contrasto che ci possa fermare; anzi, ogni ostacolo si cambia in un maggior aiuto per ostinarci a farci santi. Sì, santi attraverso tutto, a dispetto di tutto, con quella ostinazione senza la quale neanche i santi si sarebbero fatti santi. … Umiliamoci, umiliamoci. La preghiera di chi si umilia penetra i cieli. Mi pare che i cieli si sollevano quanto più si insiste con umiltà e fede nella preghiera. Io dovrò essere umiliato fino in fondo. Poi tempo verrà che qualcuno si ricorderà di questo rudere. … Dalla croce e dal sepolcro ricomincerà la vita, che è vita vera. Tempo, fedeltà, costanza, fede in Dio” (24.10.1930).
L’esilio genovese di P. Gioachino si protrae fino alla metà del 1931, continuamente vivificato dalla sua forza d’animo e dalla fede. Guidato sempre dal “Pater, fiat!”, egli si getta nella dolorosa ma vitale “stradella del Figlio di Dio”, per arrivare là dove nessuno Lo può mai raggiungere per rubarGli il record del disprezzo. Così, se qualcuno ha creduto di poter vedere in lui l’umano, attraverso le sue ferite, le piaghe e gli sputi vedrà il divino. È così che il centurione del Calvario lo ha riconosciuto, ed ha proclamato: – Veramente costui era Figlio di Dio! Bisogna godere di conoscere e di poter camminare su quella stradella che ci avvicina a Lui” (28.3.1931).
Come esempio per percorrere la “stradella del Figlio di Dio”, cammino di libertà e di distacco da tutto ciò che impedisce di vivere in santità, P. Gioachino indica S. Giuseppe, già scelto come uno dei Patroni della Famiglia:
“S. Giuseppe è un esempio bellissimo di santità semplice. Non ha fatto miracoli, non ha pronunciato profezie, non ha predicato, non ha dato il sangue. Proprio niente! Ha soltanto fatto il suo dovere, secondo la Volontà del Padre! Semplicità immensa! … Non è più santo chi s’innalza di più, ma chi sa mantenersi sempre dentro quella Volontà. Potrà essere povero, ignorato, calpestato…, sarà veramente santo, purché si mantenga sempre nella Volontà del Padre” (20.3.1931)
La situazione d’isolamento e solitudine quasi eremitica in cui si trova a Genova, e che lui chiama “silenzio occulto”, è da lui rivista nel realismo dell’esistenza cristiana, come coraggio a percorrere la via della croce, divenendo “pane mondo di Cristo per il Padre”.
Anche quando dai conventi veneti dell’Ordine non accennano a diminuire insinuazioni nei suoi confronti, riemerge sempre quel “Lasciati portare” che guida la sua vita:
“Vengo a sapere di nuove accuse, falsissime… Non sono che sciocchezze. L’importante è una cosa sola: godo gettare in Dio il mio pensiero. Lui c’è. Lui sa. Mi conosce e mi ama. Presto fa, se vuole, a far venir fuori il sole. Il Dio di Daniele non è ancora morto!” (10.4.1931)
Un accento particolare acquista il richiamo all’obbedienza, in un momento in cui essa sembra essere causa di difficoltà costante con i suoi superiori:
“Salta dal cuore alla bocca il bisogno di gridare a Dio e agli uomini: “Ma perché? Ma perché? Quanta falsità, quanta ingiustizia, quanto interesse, quanta malevolenza!” Ma, per carità, lasciamo da parte tutte queste parole ed ogni ricordo. Lasciamo passare tutto. Ho detto che perdono e voglio perdonare a tutti, a tutti. … Brutte pagine, purtroppo, sono già state scritte, ma dimentico tutto, voglio dimenticare tutto. Iddio così dimentichi i miei peccati. – Ora però bisogna andare avanti. Dio non si accontenta, è esigente, fino in fondo, come abbiamo sempre detto: “Fino in fondo”; non ritiriamoci. Bisogna che Lo lasciamo fare, che ci lasciamo portare amorosamente da Lui che ci porta potentemente. Ora il mio vento mi stringe per vivere quell’obbedienza che mi risuona come voto solenne e perpetuo, voto fatto a Dio che conosce e sa tutto, che esige tutto senza restrizioni, che vuole che mi fidi di Lui. Egli sta nascosto dietro a questa obbedienza, fatta in nome della Santa Chiesa, con la quale Egli è sempre una forza speciale. … L’obbedienza è la mia arma. Dio non può resistere a me se io faccio la Volontà sua, che devo riconoscere e riconosco nei miei Superiori attuali e non voglio ragionare più. Ho ragionato abbastanza e anche troppo. Se si vuole intendere, le cose sono chiare, se non si vuole intendere non saranno mai chiare” (21.4.1931).
Sul finire del mese di maggio 1931, P. Gioachino è chiamato a Roma. Il Vicario Generale dell’Ordine gli comunica disposizioni pesantissime del Sant’Ufficio nei suoi riguardi: proibizione di occuparsi delle sue Opere e perdita della facoltà di predicare e di confessare. Egli si inginocchia, bacia il foglio delle disposizioni e lo rimette nelle mani del superiore, come egli stesso scrive qualche giorno dopo:
“Nella decisione presa a mio riguardo la Santissima Vergine Madre di Dio mi ha fatto la grazia di riconoscere e adorare in pura fede un tratto della Provvidenza di Dio, che è sempre Padre, e di offrire a Lei anche quella gravissima umiliazione, per cui ho baciato quel documento” (3.6.1931). In linea con quanto affermato sull’obbedienza, scrive alle ‘Figliuole’: “Lasciatemi essere fedele ai miei voti. Ora provoco l’obbedienza e mi dono ad essa. Dio è in essa. Essa sarà il mio sepolcro, ma in quello e da quello verrà la vita!” (1.6.1931).
Le decisioni prese turbano P. Gioachino, ma non intaccano il convincimento interiore che Dio Padre sa portare a termine i suoi progetti anche per strade imprevedibili. L’insidia di uno smunto e supino atteggiamento di rassegnazione viene superata in una rinnovata, inesausta offerta di se stesso per la Famiglia. Scrive al vescovo di Vittorio Veneto:
“Eccellenza, se dal posto dove la divina bontà si è degnata di pormi, guardo questa croce con fede, mi pare di non poterla vedere che come una prova di Dio alla Santa Chiesa. Infatti, se pur con questo coltello nel cuore questo frate conserva la sua idea, e se le anime che lo seguono non lo abbandonano, e se un Vescovo lo capisce ancora, sarà segno che è da Dio; altrimenti sarà come frutto di terra, destinato a cadere e marcire. Per cui io sono felice di poterLe dire che, per conto mio, mi conservo fedele e forte più di prima nel mio proposito. Per questo, sono contento di eseguire oggi stesso queste decisioni, con il disprezzo di tutti, e di essere fedele al mio proposito. Credo che quanti mi vedono andare avanti così, mi seguano più volonterosi. Non ho temuto di presentarmi con questa veste di disprezzo nemmeno a Lei, certo che anche Lei continuerà a considerarmi Suo figlio” (16.6.1931).
I patimenti ed il peso di queste vicende, come ferita bruciante, frantumano la già precaria salute fisica di P. Gioachino: alla fine di giugno 1931 ha alcuni accenni di paralisi e viene ricoverato in ospedale a Roma.
VENEZIA
Dopo circa un mese, ristabilitosi un po’, ai primi di agosto 1931 viene inviato al convento di Sant’Elena, in Venezia, per favorire il “recupero di tutte le sue forze”, aiutato dalla presenza amica del priore e parroco P. Anacleto Milani. Pur nell’inarrestabile, lento declino fisico e provato psicologicamente dagli eventi, P. Gioachino rimane d’una lucidità sorprendente, continuando a stendere riflessioni in cui traspaiono le sue consolidate convinzioni. Nella fitta corrispondenza, accanto a brevi flash attestanti la sua “innocenza” rispetto alle denunce fattegli, il genuino senso dell’identità filiale resta il punto ideale di riferimento, unica cerniera che ormai lo collega all’Istituzione. Scrive:
“Se il mondo intendesse, e se i sacerdoti predicassero di più la Paternità di Dio, i fedeli si sentirebbero di più “figliuoli”, e Lo amerebbero, e Lo servirebbero… ServirLo? Sì, ma come Padre! … Queste cose io non posso predicarle. Ne ho piena l’anima, ma grido ormai inutilmente al cielo e alla terra. Almeno, predicate voi. Predicate con la voce, ma molto di più con l’esempio, con i fatti!” (13.11.1931).
Nel 1932, nonostante una specie di stanchezza morale gravi nell’animo di P. Gioachino, sempre riaffiora la freschezza intuitiva delle origini, come un edificante filtro attraverso cui rileggere le difficoltà degli avvenimenti in corso.
Ma la crescente inabilità fisica e la solitudine lo spingono ad una visione infeconda di se stesso, il cui epilogo, comunque, resta sempre la coscienza del filiale abbandono in Dio. Scrive alle ‘Figliuole’:
“Io sono in tali condizioni per cui non posso predicare né confessare. Non ho più la testa a posto… Riesco soltanto a dire l’Ufficio da solo. Io sono come un ‘rosegoto’ (torsolo) della morte! Il resto…, nulla, nulla. E questo nulla è duro! … Che cosa ormai importa a me?… Voi, oh sì, tanto. Però vi ho messo nelle braccia di Dio, nel cuore di Dio, nella cavità del volto di Dio. Vi ho messo sotto le ali di Dio: che cosa mi può ancora turbare a vostro riguardo? … E la mia dolce Casa di Vittorio Veneto, ed i miei figliuoli? Io sono ora come in un letto a dormire; i figliuoli li ho messi pure a letto, fra le cure amorose di Dio, il quale sa fare e fa loro da Papà e da Mamma. Io dormo! Dormo!” (19.6.1932)
Nell’estate del 1932 si riapre la questione del foglietto “PATER!…”, e per evitare che sia visto come “una cosa dell’Ordine”, P. Gioachino decide di sospenderne la pubblicazione: nei suoi dieci anni di vita è stato come pioggia benefica per far germogliare e crescere la Famiglia delle Figlie e dei Figli di Dio. Pur con grande difficoltà, cuore e mente di P. Gioachino non si fermano. La sua contemplazione dell’amore del Padre per l’umanità lo porta a stendere la terza “regola spirituale” della Famiglia, il “QUADERNO DELLA CARITÀ”, sottolineatura dell’essenza della vocazione filiale, in quanto “Dio è soprattutto Carità”. Scrive all’inizio:
“La Carità deve essere l’anima della nostra anima, il tono, il carattere, l’aspetto, la fisionomia della nostra vita. Come in una famiglia, dove tutti i membri sono legati da una stessa carità e amore, dove uno stesso sentimento intercorre tra padre e figli, tra padre e madre, tra fratelli e sorelle. Contempliamo quale carità ha per noi il Padre che sta nei Cieli, e pensiamo che Egli è per noi Padre e Madre”.
L’estate e l’autunno 1932 scorrono, così, tra il dissolversi delle residue, fragili speranze di una ricomposizione con l’Ordine e la consapevolezza della crescente, progressiva malattia che inducono P. Gioachino a ritirarsi sempre di più.
Egli non manca, però, di esprimere la sua sicurezza che la Famiglia vivrà, e si serve di un esempio tratto dalla realtà in cui vive a Venezia:
“C’è qui un gelso, che attira tanti ragazzi e uomini e donne per avere foglie con cui mantenere i bachi da seta… Poveri veneziani! Io volevo farlo morire, per causa del chiasso, che disturbava. … Ma il gelso vive disperatamente e trionfa. Ne godo, perché mi pare mi dica che anche la nostra pianta della Famiglia resiste e non muore, anche se c’è chi vuole farla morire. C’è Chi ‘fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire’ (1 Sam 2,6). Sì, fidiamoci. Solo la nostra fede farà il miracolo” (giugno 1932).
ALESSANDRIA
Verso la fine del gennaio 1933, P. Gioachino è chiamato a Roma, ed il Priore Generale gli prospetta d’essere assegnato nuovamente fuori Provincia, con il solito invito a non occuparsi in nessun modo dell’Istituzione. Egli manifesta subito la più nuda e disarmante disponibilità, e viene subito inviato al convento di S. Giacomo, ad Alessandria. La nuova destinazione si presenta presto in tutta la sua nuda drammaticità. Delineando i risvolti penosi dell’animo, scrive al fratello Don Giovanni:
“Sono solo. Sono a zero di ogni notizia. Mi pare di essere oggetto di un cattivo gioco. Non ho niente con me, manco di tutto, anche di medicine. Mi pare che invece di meditare la fuga di Gesù in Egitto devo meditare le beffe che di lui si son presi i soldati durante la Passione” (febbraio 1933).
È un diffuso disagio, marcato da un nuovo crollo fisico in febbraio, in parte mitigato dalla prospettiva di un suo trasferimento a Napoli che, data la posizione climatica, potrebbe se non altro favorire una ripresa della salute; ma anche questa possibilità svanisce.
Contribuiscono, in qualche modo, a sanare le vistose crepe apertesi nella sua intimità, le vicende positive di “Casa Pater” a Vittorio Veneto. Infatti, verso settembre 1933, grazie al premuroso interessamento di S.E. Mons. Beccegato e di altri amici, si arriva ad una prima formulazione giuridica: la Casa passa sotto la diretta giurisdizione del vescovo, e per togliere ogni dubbio d’ora in poi sarà denominata “Casa San Raffaele Arcangelo”.
Pare che un po’ di luce spunti all’orizzonte, e da Roma arriva anche la licenza per il ministero della confessione. Ma l’ambiente di Alessandria, non congeniale per l’inadeguatezza delle cure, lo porta ad un aggravarsi delle condizioni fisiche e lo spinge ad un crescente isolamento, come il filo di lana che lentamente si avvolge sulla conocchia.
Rifugio e conforto diviene la contemplazione della Passione di Gesù, da cui P. Gioachino trasfonde in se stesso il ‘sitio’ (ho sete) di Cristo, visto alla luce di una profonda spiritualità filiale:
“Sento molto il ‘sitio’ che Gesù ha pronunciato sulla croce, e che indicava in Lui la sete del Figlio di Dio per dare al Padre suo tanti figli, tante figlie, tanti cuori, tanto puro amor filiale” (1933).
È portato sempre di più a vivere la consegna e l’abbandono, vissuti come pace interiore che va oltre l’amarezza ed il perdurare delle privazioni, per immergersi nella tenerezza dell’amore di Dio Padre; ne scrive lui stesso:
“In data 8.9.’33 Dio mi ha dato la grazia di fare, in onore della Natività della mia Sposa e Immacolata Madre, il mio atto di abbandono. E lo rinnovo ad ogni genuflessione che faccio, ad ogni bacio che do al crocefisso, salendo le scale e nel mettermi o alzarmi da letto” (settembre 1933).
In tale prospettiva, abbandonarsi alla Provvidenza divina vuol dire andare oltre il quotidiano frammentato, per radicarsi in una vitale interiorità attraversata da un’amorosa oblazione della vita, nell’imitazione di Cristo sulla via dolorosa della croce:
“Nell’idea del mio abbandono, culmina il desiderio che esso sia come un martirio per la glorificazione dell’attributo di ‘Padre’ del mio Dio. …. Lo confesso, mi fa paura inoltrarmi per questa via. Però se è questa la via per giungere al beneplacito divino e al puro amore, chiedo a Lui anzitutto la generosità del cuore, e quindi la forza di sopportare il lungo martirio” (1933).
La sua sensibilità, infatti, lo porta verso una crescente sofferenza, sentendosi però sempre guidato dalla amorosa mano del Padre.
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