
UN TRIENNIO
DECISIVO
(1925-1928)
Verso la metà del 1925, termina il periodo di priore a Monte Berico e P. Gioachino è più libero di dedicarsi totalmente all’animazione missionaria e alle sue opere. Queste stanno attraversando un momento di forti incomprensioni che riguardano soprattutto la spiritualità stessa su cui si fonda la nuova istituzione delle Figlie di Dio, mentre le due Case – “Casa preghiera e lavoro” di Vicenza e “Casa Pater” di Venezia – danno l’idea di comunità religiose, su cui naturalmente interviene l’autorità ecclesiastica.
Nonostante questo, resta forte in lui il senso di fiducia filiale nel Padre: “Il tuono romba, ma noi sappiamo che sopra quei nuvoloni furiosi sta Dio, Padre, onnipotente, nella calma, nel sereno, che tutto sa e tutto permette solo per il bene. La margherita del campo si affida a Lui, a Lui solo” (7.7.1925). Sul versante dell’attività missionaria, il suo lavoro prosegue con passione e fervore, anche nella prospettiva di una missione propria dell’Ordine. Nella seconda metà del 1925, viene quindi acquistato un terreno e dei fabbricati sul colle sopra il santuario di Monte Berico per costruire l’Istituto “per la Missione della Madonna di Monte Berico”, destinato ad accogliere e formare i giovani missionari. Il lavoro per impostare e strutturare l’attività non è dei più leggeri, ma resta comunque sempre permeato dall’acuta e serena coscienza di una piena e totale consacrazione a Dio. Non a caso, anche le radici spirituali della Famiglia vengono sottolineate con vigore: “Noi non pretendiamo di fare tutto. Pretendiamo solo di offrire la nostra pochezza, la nostra insufficienza, perché almeno di questa si possa fare quello che si vuole. Si possa fare qualunque cosa di noi: questo è essere figliuoli di Dio! Il suo amore, la sua gioia è tutta la nostra forza, tutta la nostra felicità, l’unico scopo della nostra vita. … Io mi trovo nella luce e nella pace, in una vera gioia, quando contemplo questa umile Famigliola che non ha altra pretesa che di essere disposta a fare qualunque cosa che gli altri non facciano nella Casa del Padre” (11.11.1925). Nel mese di novembre 1925, assieme alle Sorelle della direzione della Famiglia, P. Gioachino si reca a Roma per il Giubileo, e nel viaggio di andata non manca una significativa sosta a Monte Senario, nel ricordo degli inizi della Famiglia. A Roma, il momento più forte è la loro visita alla basilica di S. Giovanni in Laterano. Maria Fogazzaro la descrive in alcuni particolari che ben rivelano l’animo di P. Gioachino: “È sera, pioggia e vento forte. La basilica è chiusa. Ci inginocchiamo davanti al cancello. Fatte le preghiere prescritte per il giubileo, P. Gioachino dice: – Questa è la prima chiesa di Roma e del mondo: attacchiamoci a questa Chiesa”. E a queste parole forti, fatte ancor più grandi dall’ora e dalla bufera che ci avvolge, aggiunge il gesto: si aggrappa al cancello di ferro e proclama: – In questa chiesa sono stato ordinato suddiacono e diacono. In questo momento rinnovo qui la mia consacrazione che, come sacerdote, estendo a voi e a tutte”. Rialzatosi, appoggiato alla cancellata, continua: – Restiamo appoggiati a queste porte, come alle porte dell’eternità. Il Padre Celeste vi guarda: vedetelo sempre davanti a voi. Vi sarà capitato in questi giorni, alle volte, di non vedere più P. Gioachino che andava avanti, e lo avete cercato; ma poi lui si voltava e vi aspettava. Così fa il Padre Celeste: vi precede, vi accompagna, si nasconde, ma vi aspetta. … Se il Padre ci aiuta riusciremo a fare qualche cosa; e se non potremo far nulla, faremo come la foglia secca dell’albero della foresta vergine, che cade e marcisce: anch’essa fa la volontà del Padre” (24.11.1925). Il soggiorno romano è caratterizzato anche da un fitto intreccio di incontri e colloqui con varie autorità ecclesiastiche, alla ricerca di possibili appoggi per la nuova Istituzione, incontrando però i soliti inviti ad entrare dentro le norme. Sono difficoltà che non scalfiscono la fedeltà all’ispirazione iniziale; anzi P. Gioachino sa rileggerle come prova della fede, come purificazione per innestarsi in un filiale abbandono in Dio e totale dedizione al Padre. Con l’animo spoglio di ogni speranza umana, ma ricco di novità profetica, al ritorno da Roma, scrive ad Emanuela Zampieri: “Fa’ come chi sale una scala a pioli: per non avere le vertigini si deve sempre guardare in alto. Guarda sempre avanti, lascia il giorno di ieri, sta attenta all’oggi e pensa al domani. … Santifichiamo tutto. Prevedi i bisogni dei tempi, e fa’ di trovarti là prima di loro, preparata con tutto il necessario” (4.12.1925). Il 1926 vede di nuovo P. Gioachino teso in una intensa attività in favore della “Missione della Madonna”. Nello stesso tempo si aprono a Monte Berico le celebrazioni per il quinto centenario delle apparizioni di Maria, e la sua attività viene in gran parte assorbita dalle iniziative giubilari. Nel frattempo, continua la pressione del vescovo di Vicenza, alla quale si aggiunge anche quella del Patriarca di Venezia, per ‘regolarizzare’ la Famiglia delle Figlie di Dio. Evidentemente tutte le spiegazioni orali ed i memorandum scritti di P. Gioachino non sono serviti a far comprendere questa forma di vita cristiana impegnata nella secolarità, tanto che egli identifica questa incomprensione come segno di un ‘sofferto martirio’. Scrive: “È il mio Colosseo, che mi si erge sempre più alto e pesante nell’anima. Io non ho da aizzare le fiere, ma ho provocato e provoco ancora il mio Dio, che so essermi Padre. … Si dà il sangue in tante maniere. Venga tutto, venga tutto” (14.1.1926). Tenta ancora di far capire la ‘novità’ della Famiglia e scrive: “La prima idea esige la massima elasticità, per cui si possa giungere dove il sacerdote e la suora non giungerebbero, adorare dovunque, riparare dove più si offende, fare del bene a chi meno lo meriterebbe, avvicinare i più lontani…; insomma: vivere, ma vivere la fede nostra, e ancor più la prima verità: Dio Padre”. E nella stessa lettera accenna ad una idea che comincia a farsi strada in lui, cioè sciogliere le comunità di vita: “Pensiamo di ritornare al campo, per coltivare i fiori campestri sotto gli occhi di Dio. Egli, se manda il gelo, sa far tornare anche la primavera, e se manda la tempesta, è sempre con mano e con cuore di Padre” (28.3.1926). 30 In realtà, le comunità non vengono sciolte subito, ma l’orientamento è ormai preso, volendo ritornare nell’alveo del genuino spirito iniziale. Di fronte ad ogni difficoltà, comunque, P. Gioachino non assume un atteggiamento meramente difensivo, ma si lascia guidare da una visione sempre positiva, ancorata nell’intuizione di ciò che Dio gli fa vivere; dice alle ‘figliuole’: “Vi posso dire che sono molto contento, e riposo nell’anima mia, da quando ho dovuto riconoscere che gli sbarramenti spinosi posti a certe nostre iniziative sono stati posti da Dio, affinchè avessimo da battere fedelmente la nostra via” (24.3.1926) Dopo mesi di intenso lavoro materiale ed organizzativo, il 19 settembre 1926 viene inaugurata la nuova Casa per la formazione dei missionari dell’Ordine, denominata in seguito semplicemente “Istituto Missioni”. P. Rossetto ne viene nominato il responsabile e ben presto vi prende servizio un gruppetto di Figlie di Dio. Nel 1927 P. Gioachino ha la netta sensazione che nei suoi superiori, sotto la rimarcata pressione del vescovo di Vicenza, si accentui il proposito di prendere la sua Istituzione sotto il loro diretto controllo. La sua profonda spiritualità personale lo porta ad approfondire sempre di più la paternità di Dio, e a comunicarla in termini forti alle Figliuole: “Oh, la bella vocazione che Dio mi ha dato! Voglio corrispondervi con tutte le forze finché avrò fiato. Insegnare agli uomini il tuo Nome: Padre, Papà, Papà! Potessi alla fine della mia vita ringraziare il Padre come ne fu felice Gesù: “Padre ti ringrazio, ho compiuto l’opera che tu mi hai dato da fare: ho manifestato il tuo Nome agli uomini”. Il tuo Nome è Padre, Papà. … Allargare il nome del Padre, far sì che Dio, sulla terra e nel cielo, nel tempo e nell’eternità, sia più Padre. Che grande missione, che grande gioia! Fare dei Figli di Dio, insegnare ad amare il Padre da figli affinchè Egli abbia la gioia che Gli è più cara: farlo Padre, fecondare il Fecondatore, dare vita a chi è la Vita! … Farci figli: ecco quello che il Padre volle fare nella creazione, nella redenzione, nella santificazione, quello che attuerà nella glorificazione nei secoli eterni. Ecco il Paradiso di Dio, il Paradiso del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo” (Giovedì santo, 14.4.1927). Ma gli eventi incalzano. Verso la fine di luglio 1927, il priore provinciale comunica a P. Gioachino la decisa volontà che la sua Istituzione passi sotto la direzione dell’Ordine. Egli, ormai stremato per il tanto lavoro e le incomprensioni, cade gravemente ammalato. In questi frangenti, matura l’attuazione di quanto già previsto: il 28 luglio 1927 viene disposto lo scioglimento della comunità di “Casa preghiera e lavoro”. Emanuela comunica la decisione anche alla comunità di “Casa Pater” a Venezia e la commenta scrivendo: “Non è che si spenga l’Istituzione con lo scioglimento della comunità, no; anzi è per far vivere l’Istituzione nelle sue prime linee fondamentali, perché lo spirito resti intatto, così come il Signore lo ha dato al nostro Padre. … Ci seppelliremo per dieci, trenta, cinquant’anni, ma quando si dovesse uscire saremo così pure e intatte come ci ha concepito Padre Rossetto. Ieri egli mi disse: – ‘Bisogna che la nostra vera vita sia vissuta, e sia veduta e capita attraverso il nostro modo di vivere, perché… chi la può dire a parole? Solo le opere dicono cosa siamo, cosa vogliamo essere. Tanto meno di apparenza, tanto più di sostanza, ma davvero, con tanta energia’. Ecco, figliuole, godo potervi affermare con tutta l’anima mia che questo passo indietro è stata volontà di Dio chiaramente manifestata. Tempo verrà … sì, verrà! Intanto godiamo; queste umiliazioni ci fortifichino. ‘Umiltà e umiliazioni, questa è la nostra strada, perché è la strada del Figlio di Dio’. Quante volte ci ha ripetuto queste parole il nostro Padre! Ecco, ora è il momento di goderle, di viverle, in verità” (Memorie della Famiglia, 28.7.1927). Come si vede, al di là di ogni smarrimento ed incertezza per una tale decisione, riemerge la gioia d’essere finalmente usciti dalle sabbie dei fraintendimenti che avevano inquinato lo spirito inziale. All’inizio di agosto del 1927, P. Gioachino si reca presso parenti, al suo paese di Poleo, per un periodo di riposo e di cura, ma è colpito da un’acuta polmonite. Ne supera la fase critica, ma ai primi di settembre un nuovo assalto cardiaco lo pone in situazioni estremamente precarie, tanto che, temendone la morte, gli sono amministrati ‘gli ultimi conforti religiosi’. Invece, un’inaspettata ripresa, letta come miracoloso intervento della Vergine, gli permette di uscire dalle fasi critiche della malattia ed avviarsi verso una lunga convalescenza, che, comunque, non gli concederà mai più di ristabilirsi pienamente. Nella notte del 17 settembre 1927, in un momento di forte lucidità, egli fa “un voto al Padre Celeste: – Se mi ridai la vita, ti darò sacerdoti figli di Dio”. È un impegno che segnerà la futura attività di P. Gioachino e, soprattutto caratterizzerà in modo sofferto il resto dei suoi anni. Verso la fine del 1927, P. Gioachino ritorna in convento, all’Istituto Missioni. Ristabilito ma ancora malfermo in salute, è costretto ad una prolungata inattività, che diviene provocazione per una fecondità spirituale, precedentemente in parte compressa dalle molteplici e stringenti attività. Scrive al fratello D. Giovanni: “Ti dico il vero, ho l’impressione di una nuova vocazione, direi, alla vita contemplativa, anche se mi brucia il cuore per il desiderio di fare. … Dobbiamo convincerci che la vita vera ed operosa per eccellenza è quella di Gesù nell’Eucaristia, vita di silenzio, di amore, di sacrificio per il bene di quelle anime alle quali si vorrebbe essere sempre vicini per aiutarle” (26.11.1927). L’inattività della convalescenza favorisce quel clima contemplativo che lo porta a stendere diverse preghiere nel profilo dell’amore del Padre per i suoi figli. Non a caso si fa frequente il suo invito al silenzio, visto come creativo ‘tacere’ di chi adora il Padre in un’ascesi quotidiana, in un’operosità silenziosa, specchio di una umanità redenta: “Sotto le nostre foglie di zucca, nel nostro silenzio intimo, fecondo, ora, quale lavoro di penetrazione, di trasformazione, di unione con Dio! … Ora noi ci nasconderemo, non saremo più, ma vivremo tanto più la vera vita di Nazareth. Andiamo a Nazareth. Quella è la casa nostra. Là ci troveremo tutti, là impareremo il silenzio, il lavoro, l’intimità, il nascondimento, l’immolazione, l’unione, la preghiera, l’amore, la fede… tutto, proprio tutto!” (24.12.1927). S’inserisce in questo contesto la stesura del “QUADERNO DEL SILENZIO”: concepito come una lunga lettera impregnata di profondo senso contemplativo, è la prima ‘regola’ spirituale per la Famiglia delle Figlie di Dio, alle quali viene consegnato il 2 febbraio 1928. Non ha lo scopo di essere un discorso teologico sul Padre, né di precisare la vocazione delle Figlie di Dio, ma costituisce piuttosto il tentativo di presentare lo stile di vita, il come si è chiamati a vivere la propria identità di figli nelle situazioni concrete in cui si è immersi. 32 Scrive infatti fin dall’introduzione: “Il silenzio sarà la vostra prima regola in qualunque situazione vi veniate a trovare. Formi esso la vostra atmosfera abituale, amata ed amabile, quasi condizione necessaria all’edificazione di quello che deve essere il vostro edificio spirituale” (Silenzio, pag. 29). Ed il suo sguardo si allarga, nello spazio e nel tempo: “Parlo anche con quelle che non sono ancora sulla terra. Nel seno di Dio Padre, già vi conosco, già vi amo, già vi chiamo figlie e sorelle. A voi tutte, figlie del Dio eterno, io piccolo atomo, piccola goccia d’acqua cadente, piccola foglia che stormisce al soffio del vento per poi cadere e tacere, o cantare per sempre il canto del Creatore, io grido: – Tacete! – e nel silenzio udrete le voci più grandi che vi faranno vivere in un mondo più largo” (Silenzio, pag. 45). L’esigenza primaria di P. Gioachino rimane sempre quella di dare corpo all’ispirazione iniziale: una consacrazione a Dio nel mondo, attraverso un impegno missionario nelle pieghe stesse della società, avvicinando quelle persone che più “sono cadute nel fango”. Scrive ad una ‘figliuola’: “Sono questi i nostri lebbrosi, la nostra eredità che dovrai andare a cercare. Dovrai preferire quelle strade dove il caro e potente Nome del Papà non è conosciuto, dove non è invocato ma offeso. Ecco le piccole, preziose Missioni, ecco per te il tuo lebbrosario, il tuo martirio” (2.2.1928). Le prospettive missionarie dell’Ordine si orientano prima all’India, poi alla Cina; in seguito, nessuna delle due prospettive si realizza. Ma P. Gioachino, nonostante le sue precarie condizioni fisiche, si offre ancora una volta per primo, e lo comunica ad una ‘figliuola’: “Lei si faccia santa a Vittorio Veneto, io in Cina. Le altre, dove le pone il Padre. … Seguitemi, anzi accompagnatemi, anzi precedetemi in Cina con la preghiera, con il sacrifico, con la vostra santificazione, e con la gioia che è la sublime preghiera dei figli di Dio” (24.5.1928). La Famiglia delle Figlie di Dio continua ad essere oggetto di richieste diverse da parte dell’Ordine. P. Gioachino acconsente, ma si preoccupa di custodire e di trasmettere alle ‘figliuole’ le linee spirituali delle origini. Per questo, sottolinea sempre una viva devozione al Padre che, anche se tacciata d’intimismo, rimane la norma di coesione, la missione primaria, in forza della quale affrontare difficoltà ed incomprensioni. Scrive ad una di loro: “Egli è il Papà nostro! Non vogliono che Lo chiamiamo così, ma verrà il tempo in cui tutti Lo chiameranno così! … Chi ha fatto i papà e le mamme, non sarà Egli stesso Papà? Hanno forse paura che baciandoLo Lo consumiamo, se il suo amore ci porta a distenderci con gioia sulle sue croci e a morire contenti?” (1.6.1928). Durante l’estate, P. Gioachino si dedica alla stesura di un “libretto che possa dare alle anime questa vita di amor filiale”. Gli dà il titolo significativo di “ABBA! PATER!” e lo dedica a Maria Santissima con queste parole: “Ella s’è compiaciuta d’ispirarne l’idea, perché queste pagine servano come manuale alle anime che vogliono vivere la vita di figli di Dio”, e perché “a chi lo legge il Figlio di Dio Gesù voglia rivelare il Padre suo Celeste” (Introduzione e dedica). A settembre, la chiusura delle celebrazioni per le feste centenarie delle apparizioni di Maria a Monte Berico vede P. Gioachino immerso con tenace fervore presso il santuario. 33 Ha nuovi colloqui con le autorità ecclesiastiche, ma tutto si traduce in un ennesimo richiamo alla disciplina ed un forte invito a ‘regolarizzare’ l’Istituzione entro brevi termini. Anche di fronte a queste reiterate ammonizioni, ben lontano dall’aggrovigliarsi in un isolamento di difesa, egli si preoccupa d’infondere alle ‘figliuole’ un programma di vita limpido e terso nei suoi intenti: “Noi dobbiamo ravvivare la fede nel mondo. Come gli apostoli dobbiamo spargerci sulla terra. Dobbiamo passare oltre, lasciare le orme dei nostri piedi; dobbiamo cambiare campo, dove si possa arare e seminare, lasciando altri a coltivare e mietere. Non attacchiamoci al campo dove abbiamo sudato: altri ci aspettano. Facciamo delle anime forti nella fede e nell’amore, lasciamole sparse dietro di noi” (24.10.1928). Ma il suo operato viene ormai visto con crescente diffidenza anche dai suoi superiori diretti, a motivo della sua tenacia di fronte alle pressanti insistenze per una regolarizzazione giuridica dell’Istituzione. Allora il Priore Generale lo chiama a Roma quale segretario generale delle Missioni dell’Ordine, togliendolo così da una delicata e penosa situazione. Il 3 novembre 1928 P. Gioachino lascia Monte Berico, con il permesso “di fermarsi in diversi centri a scopo di propaganda missionaria”, prima di giungere definitivamente a Roma. Ma le cose vanno ben diversamente: la sua salute malferma gli impedisce di arrivare a destinazione e lo spinge a declinare il compito affidatogli.
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