Nov 302024
 

Quale rivoluzione antropologica  potrebbe derivare dall’immagine di un Dio che si «colma» di sapienza e compassione, invece d’armarsi di potenza, ordinanze, sospetto e castigo?

 “Figli di Dio, noi abbiamo una meravigliosa Missione: portare con noi Dio, per le strade, vivendo in Lui; esprimerlo fuori perché Lo abbiamo dentro; darLo senza privarcene; stare in Lui, e con Lui nel Padre, senza allontanarci dal prossimo”.   (Padre Rossetto)

Wisława Szymborskaisława amava dire che «l’anima la si ha ogni tanto» e che ci sono momenti in cui proprio «si dà alla chetichella»: ad esempio, quando «portiamo scarpe strette», quando «compiliamo moduli» o quando «lottiamo per un vantaggio qualunque». A volte l’anima sembra aver smontato di turno e averci abbandonati allo strepito degli affari quotidiani. 

Dal punto di vista teologico forse non è esatto dire che ci abbandoni, ma che la si possa dimenticare certamente sì: ricordate la bella fiaba di Olga Tokarczuk?  Alcuni libri, però, sembrano fatti per ricordarcelo. Sembrano dire: hai un’anima, anzi sei la tua anima e, se te ne accorgessi e cominciassi a curarla, anche il mondo che ti circonda ne trarrebbe vantaggio.

“Dio è madre. L’altra faccia dell’amore”, di Antonella Lumini, appena ristampato nella sua terza edizione (Roma, Castelvecchi, 2024, pagine 192, euro 16), è senz’altro uno di questi.

Attraverso un linguaggio mistico, poetico e poco pronunciato, ci induce a ricordarci dell’anima, come accade a chi ha perduto la vista e si trova costretto dalla necessità a riscoprire il senso del tatto o dell’olfatto e a orientarsi per loro tramite. 

Lumini ci dice, insieme a Jung, ch’essa «sorge dal regno delle madri» e si riscopre in maniera creativa e poietica. Siccome «Dio è madre», nessuno di noi, in quanto imago Dei, è veramente sterile perché la nostra anima è pregna del seme della conoscenza in maniera incoativa e segreta. 

In alcuni, però, questo seme germoglia, in altri marcisce. Alcuni di noi sanno come portare, come nutrire, come allevare un’intuizione nel terreno sorgivo dell’essere e altri smettono di esserne capaci.

Riscoprire la tradizione della maternità di Dio significa riappropriarsi di questa «capacità», che è per noi sinonimo di ampiezza, di portata, di capienza più che di «abilità»: non significa cioè «dotarsi» di potenza, ma «colmarsi» di sapienza e di compassione. 

Lumini adopera parole molto belle per dirlo: «La teologia della madre sgorga dalla sapienza dell’opera creatrice (…) che è struggimento, passione d’amore, gioia e pazienza. (…) Il Vangelo non richiede soltanto distacco, ma anche passione, cioè il patire. La gestazione divina abbraccia il dolore del mondo, lo assume attraverso la tenerezza. Una passione che non è soltanto sofferenza, ma anche gioia: la felicità delle nozze, la letizia del parto. È un’adesione piena alla vita».

Quale rivoluzione antropologica potrebbe derivare dall’immagine di un Dio che si «colma» di sapienza e compassione, invece d’armarsi di potenza, di ordinanze, di sospetto e di castigo? Questa energia combinata di sapienza e compassione non potrebbe forse rivitalizzare la religione e la civiltà dell’Occidente, forgiare nuovi legami con le altre tradizioni, creando relazioni più cordiali e più dialettiche con la terra, con il corpo, con il piacere, con il lavoro e con l’artista che è in noi?

I lettori di Lumini, però, sanno fin troppo bene ch’ella non crede nelle grandi rivoluzioni di massa, ma nei cammini solitari, fatti di deserto, di silenzio, di purificazione e di sintonie con l’invisibile. Che la sua idea d’inversione è sempre dall’esterno verso l’interno, un «rinascere dall’alto», Eckhart direbbe «un fluire all’esterno rimanendo all’interno», non per diventare autosufficienti e autarchici, ma per tornare fanciulli giocosi, cioè bisognosi di tutto.  ***

«La consolazione dello Spirito», ci dice Lumini, «come il latte materno è nutrimento primario. Ma è un allattamento che richiede anche nascondimento, quell’intimità che fa della madre e del neonato una sola cosa, come se il bambino fosse ancora nel grembo. È il nascondimento d’amore che fa crescere, fortifica e protegge».

Quando abbiamo letto queste parole ci sono subito venute in mente alcune ricche immagini con cui Matilde di Magdeburgo esaltava la maternità di Dio e la sua giocosità: «Guiderò il bambino che è in te in maniera che ti stupirà. Porterò la tua anima in un posto segreto, e giocherò con lei, in un gioco di cui il corpo non conosce nulla. La tua infanzia è compagna dello Spirito».

Contemplare la maternità di Dio, dunque, significa rendersi fanciulli senza diventare infantili, percepire le connessioni con tutte le cose, vederle con stupore e divertimento. Lasciarsi andare alla gioia, senza paura, come fanno i bambini: appendendosi al contrario, correndo in circolo senza posa, trattenendo il fiato. O perlomeno questo è quello che fanno i bambini prima che qualche adulto non pensi di trasformare il loro gioco in guerra, l’eros in thanatos, regalando loro pistole giocattolo con cui sparare ad un ladro, o videogiochi con cui distruggere galassie. Forse è questo il più scandaloso crimine che si possa compiere contro l’infanzia.

       Ma per fortuna Lumini ci dice che questo impulso produttivo di vita e di bellezza, «che è del regno delle madri», non si è ancora esaurito in noi e non si esaurirà mai. Dio Madre continua a generare e a espandersi, invitandoci ad aggiungere nuove gioie all’universo, nuovi frutti di sapienza e compassione.

L’Osservatore romano, giovedì 28.11.2024   pag. 4 In ristampa «Dio è madre» di Antonella Lumini

***   Nota di Don Egidio, di cui sono pure le sottolineature inserite nell’articolo di R. Rosano:

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