Ott 312024
 

NON PIRAMIDE

LA PROFEZIA DI PROANO, VESCOVO DEGLI INDIOS

«Ho capito che la Chiesa doveva affrontare un cambiamento radicale, che noi vescovi avremmo dovuto compiere grandi sforzi per trasformare l’immagine di una Chiesa piramidale in quella di una Chiesa-comunità… ». Così rispose Leonidas Proaño a quanti gli chiedevano quale fosse il maggior apprendimento tratto dalla partecipazione al Concilio Vaticano II.

Era il 1979 quando scrisse queste parole e il “camminare insieme” della Chiesa era appena agli inizi. Quattordici anni prima, Paolo VI aveva istituito il Sinodo dei vescovi, accogliendo il desiderio espresso dai padri conciliari. Sarebbe stato necessario, però, un lungo processo di esperienza e riflessione per arrivare ad affermare, come ha fatto papa Francesco: «La sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».

Ancora nel secolo scorso, monsignor Proaño, vescovo della diocesi ecuadoriana di Riobamba, lo aveva intuito. E aveva iniziato a costruire, nel cuore delle Ande, un frammento di futuro. Un uomo e un pastore profondamente incarnato nel suo tempo e nel suo mondo e, proprio per questo, libero dalla trappola del “si è sempre fatto così”. Meno noto di altre colonne della Chiesa latinoamericana post-conciliare come Hélder Câmara o Óscar Romero, Proaño è stato un pioniere in molti ambiti, dalla sinodalità alla necessità di edificare una comunità ecclesiale e una teologia dal volto indigeno, fino alla difesa del Creato. « Forse per questo a volte non è stato capito, anche all’interno della comunità ecclesiale», racconta padre Estuardo Gallegos, sacerdote di Riobamba, tra i più stretti collaboratori del vescovo di cui custodisce la memoria attraverso il Centro di solidarietà andina che presiede. Attività particolarmente intensa quest’anno, in cui ricorre il sessantesimo anniversario dell’ordinazione episcopale. « A intuirne la profezia è stato, fin da subito, il popolo di Riobamba, in particolare gli indigeni. Ricordo perfettamente il momento dell’arrivo in diocesi. Ero uno studente all’epoca e quel giorno, il 29 maggio 1954, tutte le scuole erano stato riunite per accogliere il nuovo vescovo. Monsignor Proaño era giunto in auto da Ibarra: la vettura camminava a passo d’uomo e lui aveva abbassato i finestrini per salutare la folla. Un anziano nativo gli è avvicinato e gli ha afferrato la mano. “Finalmente sei venuto, Taita Amito”, gli disse cioè, letteralmente, Papà padroncino, appellativo che gli indios riservano a quanti hanno grande autorità spirituale. Da quel momento, è diventato per tutti Taita». Alla metà del secolo scorso, in Ecuador come nel resto del Continente, gli indigeni erano gli emarginati fra gli emarginati. L’uguaglianza di diritti, sancita nelle Costituzioni, veniva negata ogni giorno nelle piantagioni di caffè o cacao o canna da zucchero, dove i nativi erano sottoposti a un sistema semi-schiavista. Sacerdoti e vescovi, nella migliore delle ipotesi, ritenevano gli indios disperati da civilizzare. Proaño è stato tra i primi a comprendere la ricchezza spirituale e culturale dei popoli originari, divenendo così, senza essere teologo, il precursore della teologia indigena. « Ha dedicato i primi sei mesi a viaggiare in tutta la diocesi per visitare le comunità, senza trascurare le più remote. Si fermava in ciascuna, parlava con le persone. Era capace di azzerare le distanze. Era commovente come sapeva stare con gli ultimi senza comportarsi in modo paternalistico – sottolinea padre Gallegos –. Era sinceramente convinto di avere molto da imparare da loro. Quando lo salutavano molti indigeni avvolgevano la mano sporca e rovinata nel poncho prima di porgerla. Monsignor Proaño ripeteva sempre: “No per favore, mostrami la mano nuda, è un onore toccare la mano di un lavoratore”». Già prima del Concilio, il vescovo di Riobamba – diocesi in cui gli indios rappresentavano i due terzi della popolazione – ha innovato profondamente la pastorale, passando dalla mera pratica sacramentale e liturgica a un’evangelizzazione profonda, in grado di trasformare la vita e la realtà. « Applicava il metodo della Gioventù operaia cattolica del “vedere, giudicare, agire”. Spiegava, dunque, la Parola alla luce della vita quotidiana. In questo modo, aiutò i nativi a prendere consapevolezza della loro dignità di figli di Dio e a rivendicarla, in modo nonviolento, attraverso le organizzazioni popolari».

Proaño non si limitava alle parole: con un gesto dal forte valore simbolico, ha rinunciato alle terre detenute della diocesi e le ha date alle cooperative native. L’azione del vescovo di Riobamba è stata cruciale nella promozione del movimento indigeno in Ecuador il quale, non a caso, è considerato tuttora tra i più strutturati dell’America Latina. «Monsignor Proaño ha molto da dire alla Chiesa attuale. Avrebbe esultato nel leggere Laudato si’ e Querida Amazônia – conclude padre Estuardo –. L’esempio di Taita può dare un grande contributo alla creazione di una Chiesa dal volto indigeno e amazzonico. Una Chiesa davvero comunità, in cui tutti camminino insieme, nella differenza di carismi».

                                                                                           Da Avvenire di Lucia Capuzzi

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