Si tratta di un breve e succoso trattato di ascetica, un programma di vita, ha molti contatti nella sostanza, con il quaderno del SILENZIO, riportato in altra parte del Sito. (P. Rossetto, Genova 1930)
«A te si prostri tutta la terra, a te canti inni, canti al tuo Nome».(Salmo 65,4)
In Dio, vita, verità e amore
1. Dio! Parola breve, eppure che cosa di più vasto e incomprensibile? I cieli, gli spazi sterminati finiscono là dove Dio appena comincia. Solo al pronunciarlo e all’udirlo, la mente nostra si allarga, così che si perde e sfuma oltre gli oceani, al di là delle stelle più lontane. Noi non siamo neanche come le scodelle delle ghiande!
Eppure questo Dio pare ami formarsi un creato entro il quale racchiudere se stesso e farsi trovare. Anzi, nello stesso creato, pare abbia scelto questa terra dove posare con più effusione la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà, come in una esposizione compendiosa delle sue perfezioni. Ma e sulla terra stessa per tanti secoli non aveva una Casa, che fosse la «Casa sua», la Casa di Dio, e a Giacobbe fece intendere che Esso abitava quasi qua o là «Nomade», come i primi Patriarchi, riservandosi di seguire il suo popolo con i suoi portenti o di manifestarsi qua e là ai suoi prediletti come ad Adamo nel Paradiso terrestre e poi giù fino a che a Mosè parlò sull’Oreb e poi sul Sinai, e nell’Arca o Padiglione fra le tende dei suoi cari. Quindi chiese a David la sua Casa e se la fece costruire da Salomone e per tanti secoli ebbe solo una Casa manufatta, per quanto ricca di arte, di ori, sete e pietre preziose, e vi abitava in una sola Città del suo popolo, fra un piccolo popolo fra tutte le genti della terra.
E seppe Dio farsi più vicino agli uomini, fra i quali disse essere sua delizia abitare (cf. Prov. 8,31). Giunse a farsi Uomo, ed assunse la nostra carne umana ed abitò tra noi, così intimamente che di più non è possibile immaginare: nel seno castissimo della Immacolata. E passò al presepe, alla casetta di Nazareth, alle borgate della Palestina; e dovendo risalire al cielo, trovò un miracolo ancora possibile alla sua sapienza e potenza, al suo amore, per rimanere ancora e sempre sulla terra, ancor più piccolo, ancora più piccola cosa, quasi proprio Cosa piccola piccola, un pezzetto di pane, leggero, quasi trasparente… E perché così? Per potersi dare, e potersi chiudere in un cuore, confondersi, consumarsi, finire così, dato e donato, mangiato, assimilato.
Dio sembra avere una grande preoccupazione o predilezione: quella di entrare, racchiudersi nell’intimità, così da scomparire perfino.
L’Immenso allora scompare, e gli spazi si annullano, le stelle svaniscono. Io ho il mio Dio dentro di me, io sono più grande del mio Dio se sono capace di contenerlo, se l’ho attirato dentro di me; e lo faccio mio, se lo faccio vivere in me.
2. Dio mostra così grande desiderio di clausura. Già diceva dell’anima: «La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16); e parlò di «giardino chiuso, fontana sigillata» (Cant 4,12), di «cella del vino» (Cant 2,4).
Pare anche che Dio desideri ciò che non ha, così che l’immenso ami farsi piccolo; Colui che gli spazi non comprendono, farsi contenere, ed entrare, e chiudersi e scomparire, per potersi dare e dare. O per avere? Sì, forse proprio dare per avere, avere il nostro cuore, la nostra anima, il nostro «io».
Molte anime predilette hanno inteso il linguaggio dello Sposo e hanno abbandonato tutto per darsi, per lasciarsi trovare, e per chiudersi: prima nelle grotte, nella solitudine dei deserti, dei monti, dei boschi; poi nei monasteri, nelle celle. Attraverso i secoli, l’umanità ha sempre risposto a questo Dio amante e ha saputo isolarsi, e andare sola con Lui, sola, con Lui solo!… Pure oggi: quante anime vivono sole con Lui solo!…
3. Dio però si è rivelato non soltanto nella solitudine, ma anche nelle membra del Corpo mistico di Gesù, nella sua Chiesa, in ogni uomo, fosse o non fosse redento. Come oro greggio si è fatto vedere rilucente nelle carni del lebbroso, fra le catene dei carcerati, nelle piaghe dei malati, nei bambini innocenti, in tutti i sofferenti, dovunque ci fosse un’anima fatta ad immagine e somiglianza di Dio: e anche là l’umanità, sitibonda del suo Dio, lo ha visto, lo ha cercato, e quante volte è entrata nelle carceri, negli ospedali, ha baciato le piaghe putride, ma rilucenti di un qualche cosa di Dio, ha solcato il mare per cercarlo sulla fronte dell’idolatra dove l’acqua lo avrebbe lavato e scoperto.
Allora la sete di Dio si è allargata e tante più anime si sono sparse alla ricerca di quell’oro divino. La clausura fu trovata ristretta, l’umanità ha forzato le inferriate, le sbarre e i catenacci, ed è corsa come cerva assetata dove i suoi ardori avrebbero potuto assopirsi (cf. Sal 41,2-3), e Dio fu trovato dovunque. L’anima si è fatta una clausura e se l’è portata con sè, quasi formando in se stessa una cella per abitarvi con il suo Diletto.
4. Così l’anima si comporta a somiglianza della chiocciola, che porta con sè dovunque la sua casa, sempre pronta ad entrarvi, e a rinchiudersi in essa.
La chiocciola abita sola nella sua casa, né vi ammette cosa alcuna, né amici né nemici. E nemmeno esce dalla sua casa tanto da staccarsene e da non ritrovarla al primo momento che la desideri o che ne abbia bisogno; casa che è piccola, sì, ma sufficiente, e casa così leggera che può facilmente portare con sè dovunque: purtroppo fragile assai, eppure ricca di quanto occorre, e poi bella, provvidenziale soprattutto, perché colorata così da passare inosservata fra gli oggetti in mezzo ai quali di solito la chiocciola passa la sua vita.
E’ così che l’anima porta con sè la sua clausura, chiusa in se stessa, eppure aprendosi una via per ogni lido e per ogni terra. Essa trova nella sua casa quanto le è necessario, e tanto meglio quanto di meno ha bisogno: che giova un palazzo se una cella mi basta? C’è tutto, là dentro: ogni gioia, ogni fecondità, ogni felicità; chiunque tenti di entrarvi vi si deve sentire estraneo, intruso, non a suo posto, e uscirne al più presto, fosse pure un diamante, fosse pure una stella: Lui solo!
E questa clausura è così leggera che facilmente segue l’anima che vi abita dentro, sempre e in ogni momento capace di celare i tesori che ad altri non sono dati e difendere chi la deve abitare.
Purtroppo questa clausura è fragilissima, così che bisogna custodirla gelosamente se si vuole esserne custoditi a nostra volta, e non uscirne mai tanto da staccarsene, per non rischiare di non ritrovarla al momento opportuno.
Con essa si passa inosservati dovunque si viva, e il passo è così silenzioso che non fa il minimo rumore, trovandoci presenti dove nessuno ci pensa.
Ancora una somiglianza splende con la buona e muta chiocciola. Questa ha quattro occhi sopra quattro lunghi tentacoli, i quali sono inoltre flessibili e possono ripiegarsi e ritrarsi entro se stessi.
Sembra mostrare così che due occhi non bastano per la prudenza che ci è necessaria dovendo vivere fra gli sterpi e le spine del mondo; ma che anche questi sono troppo, e si devono agilmente ripiegare in dentro, per la considerazione, la riflessione, la meditazione su quanto si è visto, per vivere la vita interiore sempre e dovunque.
La chiocciola, muta e silente, non resiste, pare non abbia altra arma che quella difensiva, e pur questa fragilissima: la sua clausura. Non ha veleno, non morde, non ha nemmeno ossa di scheletro, è mite, cede, rinuncia, non resiste, non si oppone. Passa se il luogo è aperto, e se è aperto così da entrare tutta, con la sua casa; instancabile, cammina di giorno e di notte; e nell’inverno sa chiudersi così dentro di sè da passare dei mesi sotto le foglie, nulla vedendo, nulla cercando, come se non fosse nel mondo, come se il mondo non fosse per lei.
Sì, dobbiamo vivere in perfetta clausura così, e così saper comandare al piede, alla mano, all’occhio, alla bocca, all’orecchio e al cuore, e soprattutto alla nostra fantasia. Saperci ritirare ad ogni momento dentro, non uscirne mai del tutto, non lasciarci mai separare dalla nostra cella; non resistere, non far rumore, non offendere, esserne anzi incapaci; vigilare con quattro occhi, e rivolgerli spesso al nostro interno, e tacere, non udire, non lamentarsi, tutto soffrire, e godere e vivere quasi non si fosse neanche: ma esserci, però, esserci per la vita vera, per Lui e con Lui e in Lui, per dare al Padre, in unione allo Spirito Santo, ogni onore e gloria, per tutti i secoli (dalla Liturgia eucaristica).
5. Questa clausura avrà una chiave, una legge: quella della carità vera verso Dio e verso il prossimo: l’una e l’altra ci rinchiuderanno per conoscere sempre meglio e amare sempre più il nostro Dio per la contemplazione, per la meditazione, per il silenzio, la mortificazione, per conoscere e compatire le miserie del prossimo. E questa stessa carità ci spingerà poi fuori per le opere di carità, per la sola gloria di Dio.
Figli di Dio, noi dobbiamo sempre aver di mira e tener presente che, adottati dal Padre in figli, lo potremo essere solo sull’esempio e l’imitazione del Figlio di Dio Unigenito. «Il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Ecco la sua clausura: il seno del Padre, in cui vedeva tutto ed amava, amato e visto dal Padre. La gloria del Padre e la nostra Redenzione lo trassero di là in terra. Qui si è formato un’altra clausura, il seno di Maria, il Tabernacolo, il nostro cuore, e l’abiezione: una clausura che può sempre portare con sè, silente, umile, nascosta, inosservata. Egli regna nel mondo e nei cuori, passa per le strade, chiuso eppur palese nel cuore dei suoi, nel loro contegno, nelle loro virtù, nel loro zelo.
E’ sempre il Cristo nascosto e palese, dentro e fuori della sua clausura.
Così dobbiamo starcene noi nel seno del Padre nostro, e uscirne senza uscirne, per il prossimo, e portare Cristo e il Padre nel cuore con noi e nel cuore dei nostri prossimi. Gesù deve essere la nostra Clausura nel seno del Padre, e noi essere la clausura sua nel nostro seno e nell’anima dei nostri cari. Portare con noi Dio, per le strade, essendo in Lui; esprimerlo fuori perchè lo abbiamo dentro, darlo senza privarcene, stare in Lui senza toglierci al prossimo: ecco quello che fa continuamente il Figlio di Dio e che insegna a noi.
La grande chiave, dovunque e sempre:
la carità, e questa regolata dalla prudenza e dall’obbedienza. Le ali ci sollevano al cielo purchè si pieghino verso la terra; i piedi ci portano in avanti purchè, se uno avanza, l’altro si rassegni a stare indietro; il cuore stesso vive nel duplice movimento di aprirsi e chiudersi. Il Tabernacolo non ci dà il Redentore se non si apre, né lo conserva se non sta chiuso.
Così Maria poté darcelo perchè lo custodì nel suo cuore. Il seno stesso di Dio non avrebbe potuto darci il Figlio divino se non lo avesse eternamente concepito e generato, e non si fosse aperto per lasciarlo venire a noi pur sempre conservandolo in sè.
Così noi andremo al prossimo conservandoci nel seno del Padre, e allo stesso ritorneremo ogni volta che grideremo: Padre! Papà!…
Diamoci con Gesù, e con Gesù torniamo e fissiamo la nostra dimora nel seno del Padre, cui gioia eterna nei cieli. Amen!
6. Dio ha anche Lui rotto la sua clausura, o meglio ha insegnato a noi come osservarla, dando a noi il suo stesso Unigenito, facendoci partecipi della sua stessa divina natura, introducendoci come figli nell’intimità della sua vita e della sua gloria, e comandandoci di amare allo stesso modo, e per amor suo, il nostro prossimo. Ci ha collocati in un corridoio di cui Egli occupa un lato, e pone il prossimo nostro dall’altro e vuole che ne osserviamo la più gelosa clausura. Così Egli giunge a noi e per noi al prossimo, e noi a Lui e al prossimo, e il prossimo a noi e a Lui, in una più larga ma non per questo più aperta, ma anzi più rigida clausura. Egli si è dato a noi e per noi, perchè noi lo dessimo e a Lui tendessimo, e portassimo altri figli, fratelli nostri, che lo chiamino con noi eternamente e beatissimamente: Papà!… E’ il grido sceso a noi dal cielo, simile al rumore della chiave che apre il cielo alla terra e la terra al cielo, perchè cielo e terra abbiano un solo amabilissimo Papà.
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