UNA CASA, LEZIONI DI ITALIANO E IL LAVORO
Con il garbo e lo spirito costruttivo che gli sono propri, il presidente Mattarella nel corso della sua visita in Africa ha espresso un convinto sostegno nei confronti di una formula di gestione dell’immigrazione che può ambire, una volta tanto, a un consenso condiviso.
Visitando il centro don Bosco ad Ashaiman, in Ghana, ha elogiato il progetto formativo lì sviluppato dai salesiani, maestri della ricca tradizione della formazione professionale di ispirazione cristiana: lì 250 giovani si formano ogni anno, in collaborazione con Confindustria Nord-Est, potendo contare su una porta d’ingresso legale in Italia mediante il decreto Cutro. Gli ingressi per lavoro sono oggi forse l’unica forma d’immigrazione che mette d’accordo tutti o quasi: governo e opposizione, imprenditori e sindacati, società civile pro-immigrati e autorità locali così spesso ostili nei confronti dell’accoglienza dei rifugiati. Colpisce in modo particolare la conversione delle forze sovraniste, che una volta al governo hanno approvato un decreto che prevede 450mila ingressi per lavoro in tre anni. La pressione delle forze produttive ha spazzato via quasi per incanto i fantasmi della sostituzione etnica. Il finanziamento della formazione professionale e linguistica in patria è un tassello di un’immigrazione programmata. Ma essendo impensabile formare all’estero 150mila persone all’anno con fondi, pubblici o privati, provenienti dall’Italia, al canale formativo (benemerito) occorre aggiungerne degli altri. Oggi i decreti-flussi prevedono come canale d’ingresso la chiamata diretta dei datori di lavoro, attraverso l’imponderabile lotteria dei click-day. Poiché famiglie e piccoli imprenditori non amano portarsi in casa degli sconosciuti, finora sono serviti essenzialmente a regolarizzare lavoratori già entrati e assunti informalmente, fingendo di chiamarli dall’estero. Se si attivano nuovi ingressi “veri”, è assai probabile che riguardino dei parenti di lavoratori immigrati già in forza, che si fanno garanti dei nuovi entranti. Tanto varrebbe allora dare trasparenza a questi dispositivi ripristinando l’istituto dello sponsor, introdotto nel 1998 e poi frettolosamente abbandonato. Molte ricerche confermano un nesso abbastanza intuitivo: chi arriva avendo dei parenti che l’accolgono e l’assistono, s’integra meglio e più rapidamente, specialmente per quanto riguarda l’inserimento e la tenuta occupazionale. Un altro meccanismo da ripensare riguarda le quote d’ingresso. Oggi le richieste dei datori eccedono invariabilmente i numeri previsti: nel 2023, oltre 600mila domande contro 135mila posti disponibili.
Molti restano fuori per motivi casuali, come un malfunzionamento delle reti telematiche nel momento fatidico dell’avvio del click-day. Per contro i datori sono esonerati da responsabilità, se per qualche motivo decidono di disfarsi dei lavoratori di cui hanno richiesto l’arrivo. La società nel suo complesso, oltre ai diretti interessati, rischia di pagarne il conto. Il meccanismo andrebbe ribaltato: più liberalità sugli ingressi, quando i datori li caldeggiano (in altri Paesi le quote non esistono, è sufficiente la richiesta dei datori e una sommaria verifica dell’indisponibilità di lavoratori sul territorio), più responsabilità invece sul sostegno ai lavoratori fatti arrivare. Per esempio introducendo un contributo che serva a finanziare eventuali rimpatri o riqualificazioni. Da ultimo, non è mai banale ricordare che insieme alle braccia arrivano delle persone. Il centro don Bosco insegna pure le basi della lingua italiana, ma i decreti che riaprono le porte all’immigrazione per lavoro sono stranamente afasici sull’argomento. Abitazione, lingua, integrazione sociale non possono andare disgiunte dall’appello all’immigrazione come risorsa per far girare l’economia. Istituzioni politiche, attori economici, società civile italiana e immigrata, dovrebbero aprire dei “cantieri d’integrazione” sul territorio per dare una risposta a questa esigenza.
Maurizio Ambrosini, Avvenire 9/04/2024
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